LAVORO. GIRARE IN
POSITIVO
Maurizio Del Conte, presidente
dell’Agenzia nazionale per le Politiche attive – Anpal – dice la sua in un
lungo articolo sul Corriere della sera del 27.04. Due giorni dopo, Di Maio
(“capo politico M5S”) punta molto sul lavoro in una lettera allo stesso
giornale. Entrambi dicono che le Politiche attive e i Centri per l’impiego –
Cpi – sono conditio sine qua non per il Reddito di cittadinanza. Servono
Cpi standardizzati, riconoscibili “su tutto il territorio e in grado di fornire
ovunque gli stessi servizi”, per “prendere per mano i disoccupati e
accompagnarli (… alla) riconquista del lavoro”. L’Anpal va liberata dalle
burocrazie e finanziata con “adeguate risorse”. Così Del Conte. E Di Maio? “Le
politiche attive del lavoro non funzionano” e i Cpi vanno riformati per
“proteggere il lavoro”.
I messaggi sono chiari. Ed è vero:
Reddito d’inclusione o di cittadinanza pari sono nella sostanza. È una priorità
e non è questione di risorse, anche perché l’Europa finanzia i progetti seri.
Certo, serve la riforma dei Cpi e uno standard minimo per tutte le regioni. Ma
il servizio deve piegarsi sulla specifica realtà locale e sulla volontà
politica e dell’opinione pubblica. E deve rendere conto. Non può essere
servizio a gogò. E mi sembra miope non riferirsi e non chiedere una cornice
europea: ballano molti miliardi.
È però troppo debole la logica che
sta sotto questi ragionamenti e tutto il pensiero che da noi rumina Lavoro: una
logica negativa, sacrificale, subordinata e di rimessa, perdente per
definizione. Fa franare tutto. C’era anche nel Jobs act, ma Del Conte aveva
parlato di Politiche attive di prevenzione delle crisi. La cartina al tornasole
è l’art. 18. Di Maio ne propone la reintroduzione “come ‘misura ponte’, in
attesa di una piena realizzazione del reddito di cittadinanza e della riforma
dei Cpi”. Dopo, quindi, si toglierà? Del Conte parla invece di approccio
pragmatico, centrato sui servizi. Senza art. 18.
Significa: l’azienda è (o sarà)
libera di licenziarti, anche con un motivo inventato, ingiusto ma, tranquillo,
io poi ti ricolloco. Così – ma è l’opinione di tutti gli economisti e lavoristi
che hanno in mano il pallino – le cose sono (sembrano) pari: più flessibilità /
licenziabilità e più servizi ex post (una volta morto). È qui l’errore.
La parità (e quel che serve
davvero alle imprese) si fa girando il discorso in positivo: l’impresa ha
bisogno di essere più libera nel prendere e lasciare (via quindi l’art. 18); lo
Stato (che tutela tutti nel bisogno) aiuta il lavoratore a fare altrettanto; a
essere più libero di scegliere e cambiare imprenditore. Se vuole crescere o è
in difficoltà o non è contento (e il 68% non lo è), lo accoglie, lo orienta, lo
forma e accompagna nel dialogo con imprese.
L’Istituzione ideale? Quella che
anticipa crisi e difficoltà, produttive e relazionali. È la vera flexsecurity
(“alla danese”) ed è il discorso che fa la Cfdt francese. Ora è più chiaro
perché si fatica a venire a capo delle competenze che mancano alle imprese (per
un 25 - 30% al nord): temono la concorrenza e la partecipazione del Lavoro. Ma
solo queste scatenano impegno, inventiva, innovazione e produttività (quel che
serve per stare al mondo). E governare significa fare condizioni di
concorrenza. Quando Renzi dice che il Jobs act ha creato un milione di posti,
non tocca il cuore. C’è molto di più nelle relazioni di lavoro: dignità,
rispetto, orgoglio, gioia. Vedi Kahneman, Nobel 2002. È l’errore degli
economisti (e lavoristi) classici: visioni razionali, formali, strumentali. E
Di Maio cosa dice?
E qui da noi? La Milano politica sembra
dimenticare la sua storia di sostegno, tutela e promozione del lavoro. In un
decennio (costo 2 miliardi) è stata messa a sistema nell’Agenzia Metropolitana
AFOL (Formazione, Orientamento e Lavoro), Cpi compresi. La confusione
istituzionale non aiuta e la Regione Lombardia pure. Certo, Milano che si
privasse della sua storia e lasciasse morire l’AFOL nell’indifferenza, per
tornare a Cpi fragili e lontani, rimarrebbe negli annali.
Francesco Bizzotto
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