venerdì 24 maggio 2024

VENETO E ALLUVIONI DA PREVENIRE

INCALZIAMO ZAIA E IL GOVERNO 

Abbiamo criticato Zaia per la sua idea di proteggere il Veneto da disastri alluvionali, senza andare alle radici del problema (la città estesa e il dell'uomo). 

Nel grave Pericolo in cui siamo, anche la sua idea di Prevenzione secondaria (vasche e argini) è importante: salva persone e beni. 

Ora, in una bella intervista (gli do 8!) di Marco Cremonesi sul Corriere della sera di oggi, chiarisce l'idea di Piano Marshall, batte cassa ("abbiamo 1 miliardo di opere pronte, ma non abbiamo i soldi") e propone per tutti una "polizza nazionale per il rischio idrogeologico". 

Una polizza come? Zaia: "A prezzi calmierati, che possa incentivare i cittadini a mettersi in sicurezza". Ci pare si possa fare: gestire, prevenire, indennizzare. 

L'abbiamo già detto: mirare alla Prevenzione è il modo serio di fare le polizze; è decisivo per rendere misurato il rischio. Una polizza senza riferimenti e impegni di Prevenzione non è più possibile. Il suo rischio non è una probabilità. Perché la probabilità è un'attesa soggettiva in relazione. Dunque, il Rischio Veneto c'è: può essere misurato. Ai tecnici il come. 

Osserviamo che il miliardo che manca al Veneto per far partire le "opere pronte", Zaia lo può chiedere agli Assicuratori, impegnati dall'Europa a fare "investimenti infrastrutturali prospettici", per mettere in sicurezza i loro bilanci (rendendo sicuro il trend dei rischi). 

Ma – pensiamo – non ci schioderemo dai tatticismi delle piccole parti e degli interessi senza un salto innovativo nelle istituzioni. Servono "Autorità indipendenti" (specialisti con visione larga, riconosciuta) per le situazioni urgenti. Per l'Intelligenza artificiale come per le ESG dell'Onu (Ambiente!, Inclusione sociale, Governance).

Francesco Bizzotto

PS. A Cremonesi ho dato 8 perché pone a Zaia anche domande scomode. Tre: 

1° C'è chi parla di eccessi di ambientalismo... Zaia: "Non si può non vedere (...). Negare che parte di ciò che accade sia causata dall'uomo, vuol dire non essere connessi con la realtà". 

2° Le inchieste sulle Olimpiadi Milano Cortina (assunzioni disinvolte). Zaia: "Penso che certe organizzazioni debbano essere al di fuori da ogni logica clientelare". Ma, non dice come. Con Autorità indipendenti? 

3° La Lega di Salvini e Vannacci è cambiata? Zaia: In Veneto badiamo a identità, partecipazione e rispetto per nostri valori.

 

mercoledì 22 maggio 2024

PIOVE.

3 MODI DI PREVENIRE I DANNI:

–  SECONDARIO (LE VASCHE),

–  PRIMARIO (RIBALTARE LE CITTÀ) E

–  RADICALE (CAMBIARE IL 

Pioggia a catinelle, strade come torrenti, laghi improvvisi. Gli esperti lo dicono da molti anni: i fenomeni atmosferici tendono a variare fino a 400 volte (rispetto alle attese). Ed è un crescendo. Siamo sciocchi a guardare al passato (alle statistiche). Guardiamo avanti. 

In larga misura, ciò che accade (e accadrà) dipende da noi. Abbiamo inseguito Possibilità cieche, guidati da un'intelligenza predatoria: balziamo sui vantaggi poco curanti delle conseguenze negative, dei Rischi. E, più grandi sono le Possibilità, più grandi i Rischi. Immaginate con l'Intelligenza artificiale! 

Ma, non più di Rischi si tratta, giacché Rischio è probabilità, valutazione, misura. I Rischi ambientali sono divenuti Pericoli, intrichi di decisioni fuori controllo. Cambiamo registro, per ridurli a Rischi e poterli reggere, gestire. Servono riflessioni di prospettiva lunga. 

Il Governo Meloni vuole mettere al centro la Prevenzione e l'attivazione diffusa, fino alla Polizza di assicurazione, una forma di solidarietà su misura e responsabile poco in uso da noi. L'intenzione è buona purché non sia scarica barile. E poi, se questo degli eventi atmosferici non è un Rischio, non è misurabile, non è assicurabile. 

Sono possibili polizze di "servizio" o di garanzia ma limitate, dove il Governo fa da ri-assicuratore al 90%. Decisivo è che la polizza preveda precisi percorsi di Prevenzione dei danni. Diversamente sarà canea di pretese. 

Ma, la Prevenzione di cui si parla (le vasche di contenimento) è secondaria: è Protezione; limita i danni. Non basta, perché lascia correre un modo di agire (fare Città estesa), produrre e inquinare cieli, terra e acque decisamente fuori controllo. 

 PREVENZIONE PRIMARIA E RADICALE 

La Prevenzione primaria rispetta la terra e i deflussi. Riflette in modo interdisciplinare e costruisce lasciando spazio per l'acqua di essere assorbita e defluire in tempi lunghi; e lascia passare i fiumi nelle città. Abbiamo 12mila km di corsi d'acqua tombati sotto le città. Un problema. Troppo consumo concentrato su sviluppi orizzontali e continui. 

Immaginare sviluppi nuovi, in altezza, con spazi, separazioni, protezioni adeguati. Per non cadere dalla padella alla brace (dall'acqua al fuoco, Rischio tremendo degli edifici alti). Non basta. Andare alla base del problema. Accelerare la cura dei processi industriali e civili: ridurre gli inquinamenti, le deforestazioni, le aggressioni agli ambienti naturali. Così è Prevenzione. In questo senso l'aspra Calabria è fortunata con le sue foreste e àrmacie (terrazzi e micro invasi). Per farlo serve consenso. 

Allora, la radice decisiva, il fittone su cui intervenire, è il cuore dell'uomo: la sua ansia di predare, la sua fame di futuro, di possedere, di potere e controllare. Ci stiamo facendo del male. Serve andare Oltre l'uomo che preda, verso una donna e uomo contemplativi, abbiamo detto. Che sappiano innanzitutto riflettere e osservare bene, a fondo, a lungo, e quindi ammirare bellezza e apprezzare valori. 

Su questi tre fronti (Prevenzione secondaria – tipo Veneto: vedi sotto –, primaria e radicale) possiamo agire. Le risorse ci sono e qui l'Assicuratore (su indirizzo europeo – Solvency II –: "investimenti infrastrutturali prospettici") può dare una bella mano per rendere Rischi misurati, e quindi gestibili e assicurabili, i Pericoli smisurati in cui siamo.

Francesco Bizzotto 

PS. Il governatore Zaia ha detto: servono più opere idrauliche e rinforzi degli argini per proteggere il territorio. Ha un piano fatto con un professore emerito di idraulica dell'università di Padova (Luigi D'Alpaos). 

Zaia: "L'Italia dovrebbe redigere un piano Marshall a contrasto del dissesto idrogeologico. È inutile andare avanti a pagare danni, meglio pagare strutture di protezione."


lunedì 20 maggio 2024

LA SINISTRA

È FINITA? 

“La sinistra è finita”, dice Bertinotti. Si sbaglia. Costruiamo Reti economiche e sociali

Bertinotti (intervistato da Francesco Verderami il 21 aprile sul Corriere della sera, dice: "La sinistra è finita nell'80, con la marcia dei 40mila quadri della Fiat contro il sindacato". Perché? "Non c'era più pathos". Come ha detto Warren Buffet, hanno vinto i padroni.

No, Bertinotti! Ha perso una certa concezione di sinistra, di giustizia, di emancipazione. Quale? Quella verticistica. In azienda si chiama Piramide (in alto il Comando, in basso l'Esecuzione, e pedalare): non funziona più, come le imprese ben sanno, meglio negli Usa che in Europa. Solo la politica, ovunque, non se ne è accorta. È il nostro problema.

Ha perso la storica (e meritoria) cultura del leader, cantata dal geniale economista Joseph Schumpeter (1883 – 1950), che ha posto al centro l’imprenditore e l’innovazione, il capitalista e il suo genio o demone. Chi ne è stato il prototipo? Il Ford della Buick nera per tutti gli americani. La piramide del comando per un po’ ha funzionato, e poi ha colorato di rosso sangue il '900. Ha fatto uscire il meglio da imprenditori e Istituzioni occidentali; ha affascinato, con l’aura scientifica del Taylorismo, la sinistra marxista (meno la riformista, per nulla quella fabiana) e informa l’economia e la politica di Russia, Cina e India.

Ma, ho fiducia: le grandi culture (occidentale e di questi Paesi) sotto sotto cercano e troveranno rimedi, alternative non violente al fordismo sociale (al patriarcato) e anche a quello politico (all’autoritarismo). Su cosa può essere utile riflettere? Sul Rischio, il lato in ombra (ineliminabile) del foglio delle Possibilità. Richiede l’aggancio alla Giusta misura o Giusto mezzo: appartiene a tutte le culture umane e l’abbiamo smarrita. Il Rischio infatti è una probabilità e pretende limiti, saggezza, misura. Insegna a guardare avanti e agli Small data, non indietro, ai Big data. Senza misura è un Pericolo (una decisione opaca, tracotante, smisurata), o un Cigno nero, incredibile, impossibile. Nel Rischio (misurato) troveremo sostenibilità e salvezza.

Per inciso: il Rischio mostra il limite di Schumpeter (e della cultura liberale). Lo pensava aspetto secondario, separato, del fare impresa, gestibile con accantonamenti finanziari, neanche con l’assicurazione, cioè con un trasferimento, che implica valutazioni, misure.

Ora, torniamo a Bertinotti: affonda D’Alema (“premier per fare la guerra” della Nato in Croazia, nel 1999) e salva il sindacalista Cgil Luciano Lama che nel 1980 rispetta i quadri Fiat (“lavoratori come voi”), riconosce la fase (“abbiamo perso”) e accetta la mediazione del duro Fiat Cesare Romiti. Il 1980 è l’anno drammatico in cui i minatori inglesi si piegano ai licenziamenti e tornano al lavoro. Così “terminò la storia della sinistra”.

Non si chiede a cosa si sia ridotta la pratica dei partiti. Dico: a tattiche esasperanti di soggetti che poi si perdono nei talk show; alleanze, sondaggi, posti di potere e colpi bassi. Diceva dei partiti Gaetano Salvemini (1873 – 1957; storico socialista antifascista): “Fare raccomandazioni e procurare voti”. E oggi Aldo Grasso in prima pagina dello stesso Corriere: il politico invidia la competenza, per esempio di Draghi. Grasso, al solito, fa centro: la vecchia politica è vuota di competenze e strapiena di ideologie stantie, sogni, ambizioni e gestione di potere, a prescindere.

E, di questo, la sinistra dei leader non ha mai discusso, come non ha mai discusso del “metodo democratico” di vita interna dei partiti preteso dalla Costituzione – art. 49 (ne affonderebbe una gran parte). Temi chiave che fanno riflettere: come cambiare i rapporti di potere e quelli sociali reali? Un comunista come Bruno Trentin (segretario Cgil ‘88 – ‘94) lo dice apertamente nei suoi sofferti diari, che la coraggiosa moglie Marcelle Padovani ha reso pubblici: “la libertà viene prima”; conta partecipare ed essere liberi (ecco la Democrazia!), mentre per i comunisti, e un po’ anche per socialisti e democristiani, contava il potere, nella ingenua convinzione che poi sarebbe cambiato tutto; miravano al potere, sia come partiti (macchine di scopo) sia come persone. Conclusione: erano partiti solo formalmente democratici; come il fordismo, la piramide. Al mutare dei tempi, si rivelano sempre meno adeguati allo scopo. Così i loro epigoni.

Una prova? Il Fondo sindacale dello 0,5% delle buste paga, proposto dalla Cisl nei primi anni ’80 e cassato dagli apparati di Pci e Cgil. Oggi sarebbe una potenza finanziaria. Ed è ancora una buona idea. Darebbe gambe alle forme di partecipazione responsabile, a Rischio, riproposte quest’anno dalla Cisl che da sempre – dal 1977 con Pierre Carniti – invita a “osare più Democrazia”.

La partecipazione però oggi sembra interessare più la destra. Bella sfida, il cui punto chiave è se possa bastare chiedere che la ricchezza sia distribuita (è il lato di sinistra della cultura centralista) o se sia giusto e cuore della vera emancipazione non tanto distribuire risorse quanto crearle, contribuire, secondo capacità. Che creare ed essere soddisfatti nelle differenze sia giustizia. Così come – a fronte della frammentazione del lavoro, fino alla “gig economy” (i lavoretti) – se sia giusto irrigidire il sistema (puntare sulle tutele: l’uguaglianza per via di assistenza) o se non sia più giusto puntare sulla libertà, l’attivazione, ovvero sulla formazione e l’accompagnamento per crescere nel lavoro, contribuirvi ed esserne soddisfatto, magari cambiando lavoro. Ferme le tutele per gli ultimi, che anzi devono rafforzarsi e fare sistema, legandosi all’impegno personale e sociale.

Ma, ecco un altro esempio attuale di vecchia cultura politica verticistica della sinistra: nello stesso Corriere si legge una intervista al sindaco socialista di Barcellona Jaume Collboni: afferma il ruolo delle grandi città europee (non capitali) e dice: “Ci mancano i soldi”. Non è vero. L’Ue è piena di risorse, anche finanziarie. C’è una fiducia da costruire (non certo con il nostro Superbonus del 110% del luglio 2020) per fare solidarietà europea di debito. E poi ci sono gli investitori istituzionali pronti a mettere risorse. L’Ue, con Solvency II, impegna ad esempio gli Assicuratori (investitori di lungo periodo da 12mila miliardi in Europa) a mettere in sicurezza i loro bilanci – e anticipare i trend dei Rischi – orientandosi a “investimenti infrastrutturali prospettici”. Rivoluzionario, disse Salvatore Rossi da presidente di Ivass. Ma, come fa il privato a fidarsi di un pubblico che se ne sta separato, di fatto insondabile (non sai se ci fa o ci è), preoccupato quasi solo del consenso? Il problema è tutto qui: la fiducia in strutture pubbliche di decisione e controllo.

La collaborazione Pubblico e Privato, specie nei grandi finanziamenti infrastrutturali, è una indicazione che Mario Draghi (su richiesta della Commissione europea) fornirà dopo le elezioni di giugno. In Europa, se troviamo il modo di far collaborare Pubblico e Privato (individuale e d’impresa), non abbiamo difficoltà a reggere la concorrenza. Avremmo le risorse per investire (Draghi) sia nella ricerca e innovazione nelle imprese e nelle infrastrutture ambientali e di mobilità sia nell’istruzione, formazione e compattezza sociale. E ci sarebbe lavoro per vent’anni.

Per inciso: questo indirizzo di sviluppo democratico, partecipativo, responsabile e insieme innovativo, concorrenziale e giusto, è la sostanza della richiesta e (e impegno) del Movimento di studenti e lavoratori degli anni ’70 del secolo scorso. I miei vent’anni. Eravamo avanti. Giovani e lavoratori si sono largamente coinvolti, allora. Non c’è stato sbocco positivo soprattutto a causa della cultura centralista di cui sto parlando. E non siamo stati capaci di cambiare: di abbandonare ideologie retrive e agganciare l’Opinione pubblica. E non siamo stati aiutati dai gruppi dirigenti del Paese. Erano (come – in sedicesimo – le nostre organizzazioni) fordisti, centralisti. E lo sono ancora. Molto più in Europa che negli Usa, dove il dibattito nella medio grande impresa è vivo e vivace. Pone al centro, ad esempio, l’indicazione Onu ESG – Ambiente, Inclusione sociale, Decisioni in Rete, condivise; valorizza le differenze e la dinamica creativa, innovativa. Come vuole la logica della Rete e del libero mercato, della concorrenza.

Vedete? L’Occidente, lungi dall’essere al tramonto, è il faro del mondo. A lui, al suo dibattito, alle sue crisi e alle sue imprese guardano sia gli individui e i gruppi che hanno competenze e idee da realizzare sia le comunità che affermano valori e ambizioni sociali. Per esempio in Iran, con il radicato e umile movimento - Rete “Donna, vita, libertà”.

Francesco Bizzotto

giovedì 2 maggio 2024

PUBBLICO E PRIVATO TRA PASSATO E FUTURO

COLLABORARE

A ognuno la sua parte. Entrambe necessarie. Proviamo a non separare, a tenerle insieme (de Bortoli).Portare il “bel Rischio” (l’impegno, la misura, la responsabilità) sia nel Pubblico sia nel Privato.   

La Sinistra? Ha sbagliato l’alleanza chiave: è tra Pubblico (Politica) e Privato (Impresa)!                           

Obiettivo: una sana,   libera logica di concorrenza indirizzata e rischiata dalla Politica.                                

Due esempi: l’ex Gruppo INA Assitalia, bello e rimosso; le "Grandi Stazioni", spazi per il futuro.            

Si va per tentativi. Si fanno errori. Rendere pubbliche oggi grandi imprese private? O privatizzare, come negli anni ’90? Riflette bene (sugli anni ’90) Ferruccio de Bortoli nell’editoriale del Corriere della sera del 21.01 scorso: pensavamo “un po’ ingenuamente” di creare nuovi campioni industriali protagonisti in Europa (lo pensava Amato); “leader indiscussi di mercato”, forti innovatori – come negli Usa – non solo belle imprese e reti esportatrici (“il made in Italy di grande successo”). L’impresa privata nell’occasione ha sottovalutato il suo ruolo storico, ha giocato molto di finanza e poco di politica industriale e di apertura. Anziché “affrontare la concorrenza globale” ha mirato al “guadagno immediato”.

I casi di privatizzazioni ricordati da de Bortoli: Telecom e la telefonia, l’Iri, “chiuso nel 2000 dal secondo governo Amato”, le banche e – questo lo ricordo io – il Gruppo pubblico Ina Assitalia, venduto alle Generali nel 1999. Dunque, si sono privatizzati (e un po’ dispersi) servizi chiave, il risparmio delle famiglie, il finanziamento di Enti e imprese. “Si è privatizzato troppo o male? Probabilmente sì”, chiosa de Bortoli. È stata “una scelta obbligata”, tale era il debito pubblico. “Un po’ come lo è oggi”. E poi, “non sgorgarono da uno spirito liberale di convinta adesione alle regole di mercato”. “Lo Stato imprenditore, tutt’altro che efficiente, complice la feroce lottizzazione dei partiti”, si arrese ai richiami europei e ai debiti.

“Le privatizzazioni migliori furono quelle in cui lo Stato fece un passo indietro, nell’Eni, nell’Enel, Terna, Snam, Leonardo, Fincantieri, sufficiente per non perdere il controllo aprendosi alle logiche del mercato”. La soluzione ideale è la convivenza, la collaborazione tra Pubblico e Privato, dove ognuno fa la sua parte: il Pubblico pone indirizzi, risorse di competenza e limiti, il Privato pone rischi trasparenti, valutati, e la gestione, gli obiettivi, l’efficienza. Ma, anche il Pubblico che indirizza deve rischiare. Cosa? Il consenso! Come? Con forti / scientifiche motivazioni e con vantaggi fiscali che orientino (sfidino) l’intero mercato. Così il Pubblico governa e gli attori politici (i Partiti in primis) sono a rischio, bene in vista; li puoi valutare e scegliere. Fin qui de Bortoli non si spinge ma crediamo ci sia.

Gli ha risposto Francesco Giavazzi: lo Stato non deve controllare e gestire imprese perché poi, se va male, non paga per le conseguenze e così inquina il mercato. Infatti, "la produttività della nostra economia non cresce" e i salari reali scendono, anche se sale l'occupazione – più 500mila nel '23. E il dibattito pare essersi chiuso qui.

In realtà non c’è consenso, opinione pubblica favorevole a questa collaborazione. Né a Destra né a Sinistra. La Destra pensa a un Privato senza vincoli di indirizzo e senza limiti; e pensa a un Pubblico come intendenza passiva che assiste, eroga servizi, fa da greppia (e tiene ferma la realtà, e al minimo la concorrenza). La Sinistra vede il mercato, la concorrenza, il Privato, come fumo negli occhi. E il Pubblico? È lacerata (la Sinistra) tra ideali di servizio e realtà di stalla e greppia. Opportunismi a gogò, lì da vedere: basta entrare in un ufficio pubblico.

LA COLLABORAZIONE TRA PRIVATO E PUBBLICO

C’è attesa di un vento nuovo: rapporti nuovi tra Privato e Pubblico, tra Cittadini e Istituzioni. Ce n’è un gran bisogno. Portare nel Pubblico il Rischio, il “bel rischio” di Deborah Lupton, che insegna Eccellenza a Sidney: valutazione, misura, vita attiva, gestione dei Rischi. E portare nel Privato la responsabilità, l’indirizzo, una più larga concorrenza, il futuro. Come parlarne? Come favorirli? Bene de Bortoli, ma... serve un largo dibattito e una poetica (motivi, calore, bellezza), meglio se europei. Li possono promuovere tutti coloro che hanno spalle giuste. Toccherebbe, in realtà, a Partiti europei, ma vediamo che la loro prospettiva è incerta, il loro consenso zoppicante, labile da noi l’aggancio alla Costituzione (art. 49: “concorrere con metodo democratico”). Non riescono, i Partiti, a porsi alla testa dei processi (fare proposte con un certo respiro); finiscono in coda a fare tattiche, alleanze, Crocerossa dei bisogni. Può essere iniziativa di un giornale o di una città. Il Pubblico da solo è inefficiente. Il Privato prima o poi ci porta a sbattere: è tentato di stare non su Rischi (misurati e gestiti) ma su Pericoli e azzardi smisurati; e la concorrenza è sempre in affanno. Così perdiamo tutti, e soffrono di più i più deboli.

Non ci addentriamo oltre sul rapporto Pubblico (la Politica, il Governo) e Privato (la Società, l’Impresa), se non per sottolineare che la Sinistra ha commesso un errore di fondo: ha pensato sempre alla alleanza tra la Politica e la Scienza contro l’Impresa privata – anche il nostro Massimo Cacciari. Si tratta invece, come dimostrano gli studi della prima donna Premio Nobel 2009 per l’Economia Elinor Ostrom e come sostiene de Bortoli, di fare alleanza tra Politica e Impresa, senza mancare di rispetto alla Scienza.

Del discorso della Ostrom abbiamo già parlato. Come “governare le risorse comuni, i beni collettivi”? Si tratta di realtà sociali complesse e decisive, che stanno oltre le classi di Pubblico e Privato. È – dice l’introduzione del testo “Governare i beni collettivi” del 1990 (Marsilio Editore, 2006) – l’economia “dell’età della governance”, delle “scelte collettive”, su cui l’Onu insiste da anni (ESG: anche qui non c’è vero dibattito). Si tratta di valorizzare istituzioni collettive costruite in modo empirico e “incrementale per tentativi ed errori, da attori pubblici e privati, sulla base di scelte strategiche” condivise a livello centrale e locale.

Elinor Ostrom studia “l’approccio imprenditoriale di una serie di imprese pubbliche create per arrestare” il processo di degrado dei beni comuni (“la tragedia dei beni collettivi” – Garrett Hardin, 1968), già messo in luce da Aristotele (“Ciò che è comune alla massima quantità di individui riceve la minima cura” – Politico). E propone una apertura e concorrenza verso sistemi che fanno Rete. Non ci stupiamo allora che in questa ricerca il Privato, la grande impresa in particolare, sia più impegnato del Pubblico. Privato e Pubblico devono coesistere, sostenersi e correggersi, reciprocamente.

Detto che siamo per la collaborazione (un’alleanza trasparente) tra Pubblico e Privato, per una gestione innovativa dei beni collettivi, miriamo a mettere in chiaro il punto chiave di questo dibattito, necessario per fare Opinione pubblica e consenso, senza i quali ci avvitiamo nei tacconi, nell’assistenza e nel debito. Il punto chiave è il Rischio che è consapevolezza e valutazione (misura): il rischiare diffuso di Governi e Partiti, imprese e singoli cittadini, tutti attivi, amici e responsabili. Per inciso: così Gioacchino da Fiore, nel 1200, pensava le comunità del “tempo dello Spirito”. Potremmo dire: la Rete, la libertà, il protagonismo degli attori, l’imprenditività e la responsabilità diffusi, solidali. Una necessità.

Ora, facciamo due esempi di Pubblico e Privato; il passato e il futuro, al presente:

1° il Gruppo Pubblico INA Assitalia, venduto nel 1999 alle Generali (erano i due principali gruppi del mercato assicurativo) e

2° gli spazi liberi – un miracolo – delle grandi stazioni ferroviarie di molte città (Milano in primis) che ora sono, ci par di capire, totalmente in mani private.

IL GRUPPO PUBBLICO INA ASSITALIA

Il Gruppo Pubblico INA Assitalia (INA nasce nel 1912) contribuì da protagonista a fare il mercato della Previdenza in Italia, fino a inventare (con la presidenza di Antonio Longo – anni '80) le polizze di risparmio e investimento (Previdenza & Finanza) che hanno reso "più sicuri" gli italiani e scatenato il mercato assicurativo sul fronte Vita. Un focus group milanese a fine anni '80 concludeva: "Dico INA e penso alla Previdenza".

La privatizzazione del Gruppo INA è avvenuta nel momento in cui il Gruppo stava preparando (con Assitalia) la seconda, decisiva innovazione: cambiare il modo di assumere i Rischi; legare il rischiare della Vita (Previdenza & Finanza) alle attività, alla Gestione quotidiana dei Rischi di Danni, che così si articola: Individuazione e Valutazione – Consapevolezza –, Prevenzione dei Danni, Assicurazione dei grandi Rischi e Ritenzione dei piccoli Rischi. Tutt’altro che il semplice trasferimento dei Rischi a un Assicuratore.

Il laboratorio di sperimentazione era Milano. Su questo fronte strategico del Rischio, che è tale se lo misuri (oggi, sempre più – pensiamo al Cyber risk –, se lo anticipi) il mercato ancora è fermo, o quasi, e pronto a innovare. Cosa manca? L’indirizzo politico e l’opinione pubblica. Vogliamo partire dalle calamità naturali del Governo Meloni? Bene: Valutiamo i rischi, Preveniamo i danni, Assicuriamo i grandi rischi residui e Responsabilizziamo (ognuno porti i piccoli rischi di sua competenza). Un gioco pulito, trasparente.

 

Il Gruppo INA Assitalia aveva un'anima pubblica (era del Ministero del Tesoro) e un motore privato, locale, commerciale: le grandi Agenzie generali (a Milano, forse, la più grande d’Europa). Ha sempre dato utili al Tesoro e finanziamenti significativi a molti Enti pubblici. Esempi: il Piano Fanfani (“INA Casa” – 1949) costruì oltre 350mila case popolari, indispensabili, a cui poi si aggiunsero 19mila palazzi di pregio nei centri delle nostre città, a firma dei migliori architetti. Molti poi gli Ospedali e le Istituzioni finanziati dal Gruppo.

E, negli anni ’90, INA e Assitalia stavano organizzando la loro internazionalizzazione attraverso la rete commerciale (la presenza nel mercato). Le Direzioni romane avevano le leve culturali e strategiche, tecniche e finanziarie dei servizi, e le Agenzie generali erano competitive nel mercato. Come? Attorno al 1990 le Direzioni romane (di INA e Assitalia) promossero un accordo con l’Agenzia di Milano per innovare gradualmente in tre ambiti:

1° il rapporto con i propri assicurati INA (Vita) con l’offerta di polizze di Assitalia (Danni) a loro riservate; polizze semplici, di alta qualità, significative (“Assitalia 90” – tutela della Capacità di reddito; “Linea verde” – tutela del patrimonio in caso di Furto e rapina in casa). E consentendo alla Agenzia di pagare subito i Danni assicurati fino a importi da definirsi.

2° valorizzare gli investimenti in Prevenzione degli Assicurati (favorire – in rapporto con il Politecnico di Milano – una cultura consapevole, anticipatrice degli eventi avversi).

3° aprire sedi commerciali a Parigi, Bruxelles, Mosca e altre città europee, per apprezzare e misurarsi con lo splendido mercato del nord Europa.

Tre scelte strategiche a cui si aggiungeva una riflessione sotto traccia, ancora non esplicita: dare alle polizze Danni che favorivano la Prevenzione un vantaggio fiscale (dimezzare quel 22,25% che pesava sui premi). Milano era punta avanzata, che sperimentava e rischiava per il Gruppo. Il rapporto con Roma era definito, rispettoso, concreto. Basato su una certa tradizione, sui risultati e sull’impegno. Roma e Milano (e tutte le Agenzie) facevano rete, ognuno al suo posto. Talché, quando l’aria della privatizzazione entrò nel Gruppo, le discussioni e i timori salirono alle stelle. A poco servirebbe personalizzare le posizioni, tutte fondate e legittime. A Milano l’Agente generale da molti anni era Gianfranco Troielli, socialista e amico di Bettino Craxi da quando, ventenne, era entrato in Agenzia e, gradualmente, aveva preso in mano prima il Commerciale e poi la stessa Agenzia generale. La prima preoccupazione di Troielli e dell’intera rete delle Agenzie nei primi anni ‘90 era di non indebolire il Gruppo (la gestione finanziaria dell’Ina e i risultati per gli assicurati Vita). La prospettiva era incerta e aperta.

Nel gennaio del 1992 a un convegno romano sul futuro del Gruppo pubblico INA il timore era palpabile. La domanda: perché vendere a un privato un gioiello Pubblico utile, storico, in equilibrio? Mario Caltabiano, rispettato sindacalista 50enne della potente Agenzia generale di Roma, mi venne a salutare. Ero dipendente della Agenzia di Milano. Si sedette accanto e dopo un po’ mi disse: “Per la Presidenza (dell’INA), si parla di Gianfranco (Troielli). Se esce il suo nome, noi (il Pci) lo sosteniamo”. Lo raccontai a Troielli e lui ebbe parole di fiducia, di apprezzamento. Poi esplose Mani pulite, Troielli fu coinvolto. Ricercato, non voleva finire in carcere e se ne andò in Kenya. Così, perse il suo ruolo nel mondo Ina e poi l’Agenzia. Tornò dopo anni (scomparsa la moglie), malato, distrutto.

l Gruppo Pubblico Ina Assitalia venne acquistato (e inglobato e valorizzato, con una certa fatica) dalle Generali – storico leader europeo – nel 1999. E il mercato? È rimasto con un deficit di indirizzo politico che Ivass (ottimo Istituto di vigilanza, legato alla Banca d’Italia) non può colmare. Questo indirizzo – è evidente – può venire sempre meno dall’esterno e sempre più dall’interno del mercato, in una sana, libera logica di concorrenza indirizzata e rischiata, da chiarire. È il ragionamento di de Bortoli.

"GRANDI STAZIONI": SPAZI PER IL FUTURO

Il secondo esempio riguarda il futuro: cosa faremo con i grandi spazi delle ex Stazioni ferroviarie, ora in mani private? Li useremo per ripensare e riprogettare le Metropoli (fare, mixare e armonizzare Casa, Lavoro, spazi Verdi, vita di Comunità, Servizi) o li butteremo al vento del consumare suolo e costruire male (appartamenti come celle per vite isolate: a Milano il 50% delle famiglie è di una sola persona), speculare e poi lasciarci nelle canne?

L’interesse pubblico / collettivo: recuperare suolo e sperimentare la città nuova, mentre abbattiamo sia il vecchio, prima che ci caschi sulla testa (la sua vita attesa è di 70anni, dice Mario Cucinella) sia le barriere tra centri e periferie, madri di bolle e ingiustizie. Recupero di suolo e integrazione urbana obbligano a ragionare sulle grandi infrastrutture della mobilità e della sicurezza. Vanno pensate e realizzate gradualmente insieme. Servono investitori istituzionali (ad esempio gli Assicuratori europei: da 12mila miliardi) e una governance chiara, di lungo periodo (progetti motivati e opinione pubblica).

Per agire bene se ne discuta a fondo, con la città. Si prepari l’opinione pubblica. Diversamente, sarà canea di interessi e responsabilità. Come i trattori sulle strade. Il Pubblico serve al Privato e questi a quello. La loro contrapposizione è stata un errore. Troviamo il modo di non separare: collochiamo gli interessi privati dentro l’interesse generale. Non c’è un altro modo di procedere.

PER INVESTIRE SERVE UN INDIRIZZO CONDIVISO                                                                                           

Il caso delle Grandi Stazioni è più evidente, ma anche quello delle Assicurazioni lo è. Come non vedere che manca un indirizzo per il futuro che sia all'altezza della storia e delle esigenze della società e del mercato, e che metta in relativa sicurezza gli investimenti? L’Europa ci sta pensando. Siamo fragili di fronte alla nostra potenza smisurata, resa ancor più ambigua e interessante dall’Intelligenza artificiale. Non possiamo sbagliare nel rischiare e nel costruire. La nostra coscienza non teme il confronto; ha radici in un inconscio sterminato e assai più potente, se decide di esprimersi al meglio del suo possibile. Serve, abbiamo detto, un approccio mirato a fare Opinione pubblica e ricco di preparazione, concentrazione, misura, impegno. “Contemplazione”, direbbe Gioacchino da Fiore (per Dante, “di spirito profetico dotato” – Paradiso, canto XII, versi 139-141).

Ma, possiamo essere ottimisti: abbiamo toccato con mano che una persona come Mario Draghi – che in queste settimane auspica la collaborazione tra Pubblico e Privato in Europa e forti investimenti sul capitale umano – può, con poco, mostrare il meglio di noi, che è tanta parte.

Francesco Bizzotto