Per una POLITICA come RISCHIO
Rimastichiamo questioni del ‘900 o andiamo oltre?
Craxi? La sua scelta occidentale è stata intuitiva e generosa. Adesso, al cuore
della questione poniamo il rischio. Vale per la politica, oltre che per l’impresa
e la famiglia. E c’è un messaggio per le donne: mirate al bel rischio, non al comando!
Ho letto
l’intervista a Occhetto di Veltroni (Corriere della sera, 19 cm) e ho
strabuzzato gli occhi: sono due ex segretari ed è passato un quarto di secolo! Vicende
lontane, Berlinguer mitizzato, retroscena e personalismi; e i più sono morti o
zittiti. Fa questioni formali, di alleanze, schieramenti, dove ogni parte aveva
sia buone ragioni sia complessi retroscena e vie di fuga. L’importante era vincere.
Incertezza e ambiguità tenevano campo. Come oggi.
Li inviterei
a rifare l’intervista e chiedersi come meglio si può rappresentare e governare.
Basta votare e delegare? Da dove calano gli obiettivi? Come si organizzano i
contributi di merito, le competenze? Non si dovrebbe distinguere tra i partiti
(fuori dalle Istituzioni) e chi governa e amministra (con una certa autonomia)?
I partiti poi, si attengono al “metodo democratico” previsto dalla Costituzione?
Occhetto è
figlio del suo tempo. Non è mai stata fatta una discussione sulle ragioni del
voto che nel ’94 gli ha preferito il Berlusca. Nella sua “gioiosa macchina da
guerra” erano asserragliati molti sconfitti dalla storia. Non sapendo fare i
conti, si è tenuto saldo il capro espiatorio (Bettino Craxi) che, come ha detto
René Girard, serve per non fare la fatica di capire le crisi (a volte è
obiettivamente difficile): “È colpa sua. È stato lui”.
Craxi era
combattuto, ma l’alternativa era di merito non di alleanze, collocazione
(governo o opposizione). Craxi aveva favorito l’evoluzione democratica della
sinistra e riformista del Pci (il distacco dall’Urss): al Pci aveva aperto le
porte dell’Internazionale socialista. Se non lo avesse fatto, sarebbe rifluito
nel campo sovietico o si sarebbe spaccato. E poi, la scelta di Craxi per
l’Occidente e per l’unità europea fu lungimirante, come il sostegno ai
dissidenti dell’Est comunista. Lo ha testimoniato il cecoslovacco Jiri Pelikan,
morto nel 1999, esponente della Primavera di Praga, esule in Italia ed europarlamentare del
Psi.
Questa
politica di Craxi ha rafforzato la democrazia e isolato l’Urss. Due fatti
positivi che i comunisti in quegli anni non gradivano. Il contributo di Craxi va
riconosciuto e studiato. A meno che non riduciamo la discussione al tema del
finanziamento dei partiti, tutti e tutt’ora gonfiati come rane da un ruolo
sopra le righe, esagerato, opaco, rifiutato e indiscusso. Un ruolo che forse
spiega gli eccessi burocratici dei nostri apparati.
E oggi
siamo qui, con una situazione difficile, per fortuna ben mediata dall’Europa. E
noi corriamo il rischio di affrontarla con la solita distribuzione a pioggia temuta
dai “frugali” (i Paesi del Nord) e dannosissima: ci renderebbe meno competitivi.
Siamo a più 175 miliardi di debito (maggio su maggio). E cresce la rabbia. Sì,
l’impressione è che si siano usati i canadair per dar da bere agli assetati.
Ma, non è un errore. La rincorsa del consenso è una costante a sinistra, che
spinge il Paese a destra. Ora, urgono riforme per l’equilibrio e il rilancio del
Paese, e servirebbe l’esperienza riflessiva di Occhetto e Bersani, come degli Acquaviva
(già dirigente delle Acli), Tognoli (già sindaco di Milano) e Formica (classe ’27, confida in Angela Merkel, Christine
Lagarde e Ursula von der Leyen).
Capiamoci:
chi si sdraia sul consenso non mira a ri-formare la società, le sue relazioni, ma
a cambiarne il comando. La politica come potere: paurosa! Bruno Trentin, già segretario
comunista della Cgil, l’ha definita, quella della sinistra e del Pci in
particolare (oggi estendibile senza una piega ai 5 Stelle), “scienza elitaria dell’occupazione del
potere”. Trentin ha molto sofferto per questa concezione distorta e
micidiale della politica. È il limite, la nebbia che ha fatto soffrire Occhetto,
Veltroni, Craxi e Martelli. E molti altri. Di alcuni ho scritto, perché li ho
conosciuti: Gianfranco Troielli (imprenditore amico di Craxi, Agente generale dell’INA
Assitalia di Milano) e Gianfranco Mastella (sindaco di Paderno Dugnano). Il mio
obiettivo è cambiare e lenire queste sofferenze. Non cerco capri espiatori o
vendette.
La
questione che la politica ancora non sa affrontare è che si deve mirare (e
dire, educare) in primo luogo ai percorsi di riforma maturi, a cambiamenti
micro
-sociali,
ad articolare meglio le relazioni e le istituzioni, non a vaghi ideali e, in
buona sostanza, a schieramenti e contrapposizioni ignoranti. Non a sostituire
il ceto politico che governa. Il bello è che la regola vale per ogni tipo d’impresa:
se anteponi il tuo comando alla sua vita, all’armonia delle sue relazioni interne
ed esterne, non le fai un bel servizio; anzi, ne prepari la sconfitta. Vale
anche per la famiglia ed è un messaggio alle donne: non mirate al comando!
C’è
dietro, insomma, un errore di fondo che forse risale ai filosofi greci (cercavano
la sostanza delle cose e svalutavano le relazioni) e che i Fabiani inglesi hanno
messo bene a fuoco: si impegnavano a formare e far crescere l’uomo nelle
diverse situazioni, mi diceva Mastella. La politica invece, a fronte di una
realtà per alcuni aspetti ingiusta e inefficiente, cosa fa? Ne immagina una
nuova e la reclama, la chiede, la pretende: nuova e giusta.
Ma, questa
realtà immaginata sta al termine di un percorso di attuazione che rimane
nell’ombra, perché ciò che interessa è il risultato finale, la sostanza, la
giustizia (con me al comando, ovviamente: così la farsa è l’annuncio). Non
prende, non convince. Secondo Henri Bergson è un limite della nostra
intelligenza. Non una cosa da poco. Ascoltiamolo:
“È il risultato delle azioni che ci
interessa. […] Noi siamo interamente
tesi al fine da realizzare. […] La
mente si dirige di colpo allo scopo, ossia alla visione schematica e
semplificata dell’atto nel suo essere immaginato come compiuto. […] L’intelligenza rappresenta dunque alla
attività solo degli scopi da raggiungere, ovvero dei punti di stasi. E, di
scopo raggiunto in scopo raggiunto, di stasi in stasi, la nostra attività si
sposta attraverso una serie di salti, durante i quali la nostra coscienza si
distoglie il più possibile dal movimento che si compie per conservare soltanto
l’immagine anticipata del movimento compiuto. […] Esaminate da vicino ciò che avete in mente quando parlate di un’azione
che sta compiendosi. C’è l’idea di cambiamento, è ovvio, ma rimane nascosta, in
penombra, mentre in piena luce c’è la figura immobile dell’atto considerato
come se si fosse già compiuto. […] La
conoscenza si riferisce a uno stato, anziché a un cambiamento. […] La mente si ritrova sempre ad assumere una
prospettiva di stabilità su ciò che è instabile.” Henri Bergson, L'evoluzione
creatrice (1941), Cortina ‘02, pagg. 244 - 248.
Anche in
politica poniamo in piena luce la figura
immobile dell’atto considerato come già compiuto: è il risultato ideale, il
sole che deve sorgere. Aria di famiglia un po’ per tutti. Ma non è così anche
per la tecnica (l’Intelligenza artificiale, la robotica, la genetica, il 5G e l’Interconnessione
delle cose), a cui in questi giorni autorevoli opinionisti chiedono che si dia
libero corso? Che cosa non va in questo modo di fare e interpretare la politica,
le attività, la tecnica, lo sviluppo? Cosa è sbagliato, cosa manca in questo
approccio?
Vediamone
prima le buone ragioni, i vantaggi. Questa capacità (è potenza immaginativa, il
nous degli antichi) ha dato grandi
frutti: abbiamo anticipato, creato, cose e ordini straordinari (terreni e
celesti); si sono scatenate energie sconosciute, incredibili, ma… Non ne abbiamo
messo bene a fuoco i pro e i contro. Molti i pro. Ma, i contro e i costi sono rimasti
in ombra. Splendono e fanno scuola i risultati utili e belli. Del Rinascimento
brillano le città italiane.
Ora,
l’incremento quantitativo dei mezzi e dei beni (scienza, tecnica, bellezza) prepara
un rovesciamento: i beni e i mezzi, da strumenti di libertà per l’uomo, diventano
vincoli, strumenti di limitazione e poi di distruzione. Perché? Torniamo a ciò
che è sbagliato nell’intelligenza: assumiamo
una prospettiva di stabilità e compiutezza su ciò che è instabile, in divenire;
significa che trascuriamo il processo, il percorso, la via di realizzazione
dell’obiettivo che ci siamo dato. Viaggiamo al buio, a velocità crescente.
E perché
è sbagliato non valutare bene pro e contro, viaggiare al buio? Perché il fine
da realizzare è in realtà una possibilità, un potenziale; e “tutto
ciò che è in potenza è in potenza gli opposti” (Aristotele, citato da
Severino). La via, il percorso, il processo, è decisivo perché è sempre aperto,
incerto, creativo e a rischio. Grande potenziale? Grande rischio. Cresce il
primo? Cresce anche il secondo. Fino a quando si può reggere?
È il
rischio l’ospite rifiutato e necessario, con cui dobbiamo imparare a fare i
conti. Assai più della tecnica, galoppante e inchiodata dai libri dei filosofi.
È il rischio il simbolo del nostro tempo. Vale per tutti gli ambiti: Ai, 5G,
politica, impresa. Solo l’impresa ne sta tenendo conto con un bel dibattito che
mira alla organizzazione a rete, coinvolgente, responsabilizzante. Non sarà
facile, perché la rete è estranea alla tradizionale solitudine dell’imprenditore.
Schumpeter, infatti, sottovalutava il rischio, ne faceva una questione
statistica, di costi spalmabili. Mentre non è più la statistica (la frequenza,
il passato) che misura il rischio, ma piuttosto l’intelligenza creativa, instabile,
che s’immischia nell’impresa, che anticipa e gestisce. I professori faticano a
capirlo quanto i tecnici.
Il mio obiettivo?
È politico in senso largo: accettare e mettere al centro, in ogni ambito, il
rischio (l’intrapresa) e attrezzarci a misurarlo e gestirlo, in entrambi i suoi
lati (positivo e negativo, vantaggi e danni, insieme). Sta alla base del
governare e richiede che il materiale (la tecnica, la
ripetizione, il razionale, il digitale, il consenso) faccia un passo indietro e
lo spirituale
(i modi, le relazioni, la creazione, l’innovazione, l’etica) due passi avanti.
Gestire i
rischi è cosa seria e complessa. Perché rischio è probabilità, misura; e il
modo tradizionale di misurarlo (la statistica, gli eventi del passato) collassa.
La vecchia misura (la matematica), il fondamento della tradizione occidentale
(il razionalismo) e il mito di quella globale attuale (i dati) ci collasseranno
tra i piedi. Lo intuisce chi, a tutte le latitudini, oggi si occupa di Cyber risk: non lo puoi gestire stando
in prudente attesa, in difesa, assicurandoti ex post; devi attrezzarti per aggredirlo,
gestirlo, anticiparlo, “assicurarlo ex ante”, direbbe Bianca Maria Farina,
presidente dell’Ania, l’Associazione degli assicuratori.
Miriamo a
intuire, anticipare gli eventi (con regole che neutralizzino i molti hacker
irresponsabili del nostro tempo), per determinarne l’equilibrio, in positivo. Perché,
insegna la Meccanica dei quanti, siamo influenti, sempre! Corrisponde
all’insegnamento di Georg Simmel: l’umano è sempre creativo. A forza di gestire
il presente in modo meccanico, guardando indietro (al passato, ai Big data), a
forza di dare spazio alla potenza e aspettare i danni a cui rimediare (a
posteriori), finisce che impattiamo con eventi dannosi senza rimedio. Questo è
il punto. Il mio impegno mira ad accogliere l’enigmatico invito di Galileo che
sta alle origini della scienza: “Conta ciò che si può contare, misura ciò che
è misurabile e rendi misurabile ciò che non lo è”. Sì. Si tratta di
misurare ciò che non è misurabile.
Se
l’impresa (il liberalismo) è la punta avanzata di questa riflessione, la
politica è quella arretrata. Meglio se fosse il contrario, perché la politica
parla di una mentalità largamente diffusa, che qui fa da ostacolo. Ma, sono
ottimista: vedo bicchieri pieni a metà; stanno nelle mani di molti leader
politici europei (e non) che mi sembrano all’altezza del nostro futuro.
Francesco Bizzotto
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