mercoledì 27 maggio 2020

FRATELLI MAGGIORI QUARTA TAPPA


Ricordare, riportare vicino al cuore, le belle persone conosciute


Gianfranco Mastella

stimato Sindaco di Paderno Dugnano, nel Nord Milano. 

Anche lui socialista e assicuratore. Giungerò a trarre una morale politica sui Socialisti e sulla Sinistra. Credo sia tempo. E mi scuso con i lettori se vado un po’ lungo. La riflessione merita. Sento di doverla ai Socialisti come Mastella che hanno contribuito (non da soli) a fare la storia di grandi cambiamenti; certo, da raddrizzare ma bellissimi. Penso a:




1.  Il secolare impegno per la Formazione professionale e l’accompagnamento al lavoro dei più umili;

2.  le molte Cooperative che hanno costruito case popolari (da quelle di paese, all’INA-Casa);

3.  lo Statuto dei lavoratori (la legge 300, di 50 anni fa esatti);

4.  il Divorzio e l’Aborto (per la dignità e libertà in particolare delle donne);

5.  l’autonomia sindacale e i cambiamenti delle concrete condizioni di lavoro in fabbriche e uffici;

6.  i rapporti tra Paesi in Europa (per la sua unità) e nel mondo (per il “non allineamento” ai più forti);

7.  la fedeltà occidentale, il sostegno agli Euromissili e ai dissidenti dei Paesi dell’Est, contro l’URSS.

Impegni in cui i Socialisti sono stati in prima fila. Con i Comunisti contro (o a fare le pulci), che li accusavano di cedimenti o ai “padroni” o all’”imperialismo Usa”. Perché questa costante? Bruno Trentin ha detto: la Sinistra, i Comunisti in particolare, concepivano la Politica come “scienza elitaria dell’occupazione del potere”. Il cambiamento sociale gli interessava “come trampolino per l’accesso al potere“. Ipotesi inesplorata (un intrico di questioni) che spiega le tragedie storiche dell’URSS e dei Paesi dell’Est, e anche le difficoltà attuali dei partiti. E fa di Craxi un paladino aperto e generoso della Democrazia. Avevano ragione i Fabiani, direbbe Mastella. 
LEGGI DI SEGUITO LA MIA RIFLESSIONE ESTESA
Torno a ricordare un’altra bella persona (Gianfranco Mastella, socialista e assicuratore), conosciuta fra i miei 30 e 40 anni. Aveva 12 anni più di me e tratti ammirevoli. Il mio è un grande abbraccio. È anche – ovvio – un orgoglioso racconto di me, della mia passione politica, del senso di un impegno, di un percorso. Del senso mio, suo e di tanti silenziosi.

GIANFRANCO MASTELLA è stato Sindaco di Paderno Dugnano, militante del Psi e dipendente delle Assicurazioni Generali. Di lui posso dire: amico. Abbiamo passato belle giornate sulle nostre Prealpi. Mi ha fatto conoscere il mitico Guido della Grignetta: due spalle così, ti offriva vino nero con gassosa. Siamo stati più volte in cima alla Grigna, nel rifugio Brioschi, senza neanche sederci: un brodo caldo e via di corsa per pranzare a casa. Lui ogni domenica partiva all'alba per camminare in montagna, molte volte da solo perché, diceva, nel silenzio “affidava a Dio la famiglia della comunità padernese”, ricorda la moglie Angela. Sorridendo, mi mostrava la scritta di S. Francesco sulla Capanna Mara: “Beata solitudo, sola beatitudo”. Erano momenti di intimità: riemergevano la sua fede e il S. Agostino di cui era assiduo lettore, o maturavano scelte politiche. Fede e Politica. Umanità.

Avvocato, la sua passione era la Pubblica amministrazione, la Politica locale. Assessore e vice sindaco per lunghi anni, mi ha sostenuto nell’’85, con Ambrogio Colzani e altri (io, comunista movimentista nei 20anni) affinché entrassi in Consiglio comunale. Ci riuscimmo e divenni capogruppo del Psi con lui Sindaco. Difesi la sua giunta come un mastino: tutte le sere, nelle commissioni o in aula. Una volta mi scappò di dare del vigliacco all’ex sindaco del Pci Stefano Strada che, da alleato, puntualizzava: sbagliai, mi scusai e ci capimmo.

E un’altra volta feci passare un appello a favore di Vàclav Havel, contro il regime filo sovietico cecoslovacco, isolando il Pci. Troncato (pur migliorista, vicino al Psi) mi diede del “servo degli americani”, e io: “La prendo come una medaglia”. In effetti, lo è. Il Psi di Craxi fece una gran cosa in quegli anni sostenendo l’Occidente, i dissidenti dei regimi dell’Est e gli Euromissili contro l’Unione sovietica. E sull’aborto scrissi in Consiglio un documento unanime (con mal di pancia dei Comunisti) che chiedeva di combatterlo prima di tutto con l’educazione alla maternità e paternità consapevoli. Questa è libertà! È ancora attuale. Allora, ci si rivoltarono contro le femministe del Psi, ma il buon senso prevalse.

Un’esperienza intensa e bellissima. Gianfranco mi faceva conoscere tutti e m’infilava dappertutto. Mi volle nella verifica Bilancio e, scartabellando da incompetente, vidi (lo dissi in aula) che avevamo un consumo spropositato di benzina con le macchine e di formaggio grana nelle mense. Qualcosa cambiava. Lui era un militante, presente, paziente, sorridente. Mi diceva: “Francesco, la Politica locale è decidere, risolvere problemi. Anche guardare avanti, ma le condizioni sono molto difficili. Bisogna non avere pretese e metterci buon senso”. Lui ce ne metteva tanto. E soffriva di non potere – esempio significativo – arrivare “dove si doveva: a casa delle persone in serie difficoltà e che non chiedono; come questa mamma con due bambini piccoli che vive in un sottotetto. Mi è stata segnalata. A Paderno!”

Cercava risposte nella storia ed era gradualista, quasi attendista, tanta era la fiducia nel positivo evolvere delle cose. Infatti, aveva simpatia per i Fabiani britannici, che si ispiravano a Quinto Fabio Massimo (il temporeggiatore, con Annibale). I Fabiani mettevano in campo iniziative e progetti per istruire gli umili, per elevarli e renderli capaci di stare diritti in società, nelle istituzioni e nelle imprese. Scrisse al cardinale di Milano Carlo Maria Martini per congratularsi delle sue iniziative di scuola politica. Sosteneva che fare Politica e accettare impegni implica preparazione specifica e conoscenze storiche: “Le parole vanno non solo pensate, anche pesate”. Amava la famiglia che definiva il suo “recinto sacro” e si dispiaceva di non riuscire a dedicarle più tempo. Condividevamo qualche ingenuità, che “nella Roma antica era sinonimo di libertà”. Eravamo sul finire degli anni ’80.

Umile e responsabile, aveva un vivo “senso religioso delle cose” e auspicava il “massimo rispetto per le persone”. Un imprenditore di Paderno ha detto di lui: “È stato una Stella alpina della PA”. Vicino al sindaco di Milano Carlo Tognoli (“serio, capace e disponibile”), quasi tutti i giorni correva presto a Milano, al lavoro, a sbrigare pratiche nell’Ufficio legale delle Generali, per poi essere in Comune sui problemi e negli incontri. E mi è molto piaciuto che la sua azienda lo abbia riconosciuto alla moglie, quando è morto di tumore a 52 anni. Il suo dirigente le ha scritto: “Oggi siamo diventati tutti più poveri”.

Fare Politica nel Partito socialista significava essere ago della bilancia: potevi appellarti ai valori di welfare (e agganciavi la sinistra) come a quelli di libertà (e ti seguiva la destra). Ma si capiva che non bastava. La società era cambiata e bisognava rinnovare la democrazia, fare spazio ai molti, ma come? Claudio Martelli con il suo appello a “riconoscere i meriti e tutelare i bisogni”, ci provava e convinceva. E Craxi disegnava prospettive ampie. Ma, accanto c’erano giganti organizzati: la Dc e il Pci.

E c’era un residuo di cultura politica (tutti a chiedere) che andava preso di petto, facendo largo al nuovo. Perché non si cambiò stile e organizzazione? C’era quel virus dell’accerchiamento degli interessi con finanziamenti facili, che irrigidiva e dopava i partiti. Un virus preso, credo, dall’apparato pubblico, anni ’70: cose dell’altro mondo. Sottostimato e corrosivo, era un’autentica ombra. Una volta Mastella mi disse: “I partiti hanno bisogno di soldi; tu stanne fuori; c’è ben altro”. Pensai: non è una soluzione, ma stetti zitto. Era (è) questione profonda: toccava il ruolo dei partiti e il modo di fare Politica. Provo a dire.

Provo a dire della Sinistra, oggetto di molte discussioni. Sarebbe contento di questo mio tentativo, e tengo conto delle sue idee. In quegli anni il Psi sgomitava. Il vecchio partito delle riforme sociali (la formazione professionale per i più umili, le case, lo Statuto dei lavoratori, le leggi per il divorzio e l’aborto), che aveva criticato i conservatorismi di Dc e Pci, non bastava. La parte trainante della società chiedeva di essere promossa, lasciata libera, entro regole chiare e semplici. Il Psi aveva colto il vento nuovo e dava spazio al merito, all’innovazione, al pluralismo (televisivo ad esempio, con Silvio Berlusconi): tutelato il bisogno, aprire, liberare la società. Craxi credo pensasse oltre il Psi e la Sinistra, a un Partito democratico per tutta la Sinistra, compreso il Pci. Vedeva lontano, generosamente. Ma, il modo d’essere dei partiti, anche del Psi, era centralista. La Dc lo era meno. Il Psi, ad esempio, non si era aperto alle conoscenze e competenze organizzate, alle loro idee e proposte, se non a spizzichi e bocconi: aprendo e chiudendo. Nel Pci c’erano state analoghe aperture; ad esempio con il compianto Nevio Felicetti nel comparto assicurativo.

È mancata la capacità di porre in questione il grigio modo d’essere, pur tra indubbi meriti, della Sinistra, specie comunista: i partiti come macchine di potere che sventolano ideali e distribuiscono tutele per andare al governo; usano i movimenti sociali come trasporto, come tram. E cambiare i rapporti? Dopo. Miopia e pochezza, dice Bruno Trentin, coraggioso intellettuale e segretario generale della Cgil; un comunista impegnato che ci ha sofferto.

La sua accusa ai partiti di Sinistra è chiarissima: poiché ritenevano scientifico, indiscutibile (da Marx) il fordismo e la sua organizzazione parcellizzata del lavoro (il taylorismo), consideravano “il conflitto sociale come […] strumento di promozione e sostegno dell’azione del partito politico. In una parola, come trampolino per l’accesso al potere“. La Politica si riduceva a “scienza elitaria dell’occupazione del potere” (Bruno Trentin, La città del lavoro, Ed. Feltrinelli, 1997, p. 51). Con conseguenze tragiche: vedi l’URSS e l’Est europeo. Non avevano capito niente. Confuso il taylorismo (organizzazione del lavoro, sempre in progress) con il fordismo (la piramide di comando e potere), si sono persi. Trentin parla di “subalternità culturale al taylorismo e al fordismo” (p.107).

Una concezione della Politica arida, autoritaria, giunta al capolinea nell’’89. Questa discussione non c’è mai stata: le relazioni vengono sempre dopo le sostanze e gli individui (dai tempi dei filosofi greci). Così, i partiti (privati e politici) occupano le Istituzioni, lo Stato, e buona notte ai suonatori: le relazioni aspettano. Anche il Psi, in una certa misura. Sono di Sinistra e critico la Sinistra. Ma guardo fuori e, con Gaber, mi chiedo: cosa dice la Destra?

Qual era il senso del fermento, della domanda dei movimenti giovanili e sindacali degli anni ’70? Cos’altro chiedevamo se non che le Istituzioni e le imprese aprissero a un prender parte responsabile, a relazioni e rischi nuovi? E cos’era quella proposta di Pierre Carniti (Cisl), di creare un Fondo d’investimenti dei lavoratori con un loro contributo (lo 0,5%), per aver parte attiva in economia? Cassato dai partiti, oggi sarebbe una potenza. Carniti diceva (1977): dobbiamo “osare più democrazia”. E Trentin ricorda le parole di Norberto Bobbio: “La democrazia si è fermata sulle soglie della fabbrica” (p. 39). Democrazia, non Socialismo.

Si trattava (si tratta) di ribaltare la storia e immaginare, appunto, capovolto il processo di emancipazione dell’uomo: dalle utopie comunitarie (il Comunismo) a quelle riformatrici e di tutela (il Socialismo), alla Democrazia, con i suoi alterni percorsi di crescita e responsabilità. Punto di arrivo, non di partenza. Significava (significa) dare ragione al liberalismo, nella sostanza. È problema aperto: la piramide, centralista, del comando, non ce la fa a portarci fuori dall’empasse delle crisi: ambiente, pandemie, libertà di fare impresa, lavoro, arte.

Serve passare alla Rete: valorizzare e rispettare conoscenze, autonomie, responsabilità, rischi. Le imprese lo sentono e cercano il modo di farlo, spesso riuscendoci. Guardiamoci attorno: le nostre micro imprese, le filiere produttive con migliaia di professionisti autonomi – oggi in difficoltà –, le multinazionali tascabili belle e competitive, hanno qui, nelle relazioni di fiducia, formazione, crescita e libertà delle persone, le ragioni della loro creatività, innovazione e successo. Compreso quello di Carlo Bonomi che, alla testa di Confindustria, merita un forte augurio! La Politica impari, sia più umile, si ripensi e dia una mano alle imprese, ai Bonomi.

Ora, ascolto difese improbabili del Psi e di Craxi (da decenni capri espiatori – questo sì! – nell’immaginario collettivo: lo sento) basate sui meriti di governo dei Socialisti. Inutili se non si fa chiarezza sul ruolo dei partiti. Corriamo il rischio che a fare e pesare in Politica siano Reti opache o chi ha molti soldi. Inaccettabile. Il nodo da sciogliere, mi pare, è quello posto: la cultura centralista che sminuisce i rapporti sociali (e quindi la rappresentanza) ed è ancora dominante in forma di leadership. È il limite di quelli (di ieri e di oggi) che “il Partito sono io”.

Ai partiti serve una struttura leggera e federale, a rete (un intreccio di responsabilità e di competenze), che rispetti la Costituzione (agire con “metodo democratico”) e dia spazio e ruolo (per Statuto) ai territori e alle conoscenze. Così si superano Populismi e Sovranismi. Milano ci deve provare. Per il Paese e per contare a Roma. Servono partiti che non s’immischino troppo con la Pubblica amministrazione e con i ruoli di Governo. Anzi: in Democrazia vanno sancite e difese le autonomie, per l’alternanza. Questa Politica (spazio alle idee) costerebbe poco ed è la frontiera, credo, dell’impegno dei “democratici”.

Torniamo a noi. Nel ’90 non fui rieletto in Consiglio comunale ma rimasi vicino a Gianfranco. Lui era al secondo mandato di Sindaco e lo andavo a trovare la domenica pomeriggio nel suo ufficio. Non era solo. Spesso c’erano Sergio Santambrogio e altri compagni del Psi. Parlavamo. Cercava il modo di tenerci insieme e farmi rientrare, ma quando esplose Mani pulite (nel ’92) lo vidi in crisi, oltre che politica, anche personale. Una mazzata che lo piegò in tutti i sensi: “Serviva un cambiamento, ma non così”.

Una domenica, da soli, mi disse: “Sai com’è. Si cerca di rispettare le norme ma, se vengono qui, ci portano via tutti”. Senza semplificazione normativa e senza una qualche forma di immunità rispetto a errori e colpe non dolosi, chi entra in Politica e si trova a dover decidere, si assume responsabilità personali enormi (eccessive), oppure scivola nella semi paralisi (non decidere e non farsi nemici) o sotto ricatto. Se n’era parlato: chi decide davvero rischia troppo. È insostenibile. Io ero per un far Politica leggero, temporaneo, di volontariato e, se si vuole, di passione o servizio; non una professione ma un’esperienza che consenta di dare e poi tornare al lavoro arricchito. Gianfranco, che conosceva la complessità delle cose, sorrideva, era possibilista, ma riteneva servisse molta esperienza e dedizione. Forse, il punto è distinguere tra decisioni politiche (dei partiti, di indirizzo) esterne alla PA e decisioni operative nelle Istituzioni, da eletti o nominati. Qui, il polso, le capacità contano molto. Se no non conti. Siamo tuttora in alto mare. Se si distinguessero i ruoli, avrebbe senso uno scudo penale e civile ben calibrato per chi governa e decide. Ma, parlarne così serve?

Come ho detto, Gianfranco Mastella morì fulminato da un tumore nel 1993 a 52 anni.
Grazie, Gianfranco! Perdonaci di averti preso molta vita e un po’ di famiglia. Hai due splendidi nipoti – Cecilia e Riccardo – che non hai conosciuto, a cui Angela e Vera parlano di te e che ti vogliono bene. Riposa in pace, sulle nostre montagne.
Francesco Bizzotto

lunedì 25 maggio 2020

LAVORO


50 ANNI DI STATUTO



Anziché solo su diritti e protezione (incerti, difensivi, insostenibili), investire su diritti-doveri e promozione. In azienda e nel territorio. Si tratta di pensare e agire ex ante. Le tutele ex post? Ampie, sicure, di default. Costa la metà e rende il doppio. La collaborazione non si impone: l’impresa ha il diritto-dovere di scegliere il collaboratore. E questi di scegliere l’imprenditore e, se insoddisfatto, mettersi in pista per cambiare (da posto a posto). Perché la libertà viene prima (Bruno Trentin). La regione Lombardia ha le risorse per fare migliaia di assunzioni e potenziare i Centri per l’impiego e gli Sportelli lavoro del territorio. Le faccia. Non aspetti l’inasprirsi della crisi



"Il vero problema di oggi non è premiare i meritevoli, ma portare il maggior numero di persone in condizione di realizzare il massimo delle loro potenzialità." Salvatore Natoli, 1942. Il Sole 24 Ore, 18 febbraio 2010



Nel 50° dello Statuto dei lavoratori, c’è attesa di norme nuove, semplici, comprensibili, tradotte in inglese (Pietro Ichino: è pronto), che diano certezze a chi fa impresa, a chi investe, e liberino sia l’impresa sia il lavoro. È il nodo. Il Capitale umano, nel Paese della creatività e della bellezza, ha un ruolo pari a quello del Capitale finanziario. Si tratta di favorire un cambio di passo nella relazione Impresa - Lavoro: dalle tutele passive (distributive) a quelle attive (intrapresa diffusa; diritti-doveri trasparenti); dalla incerta, insostenibile protezione del lavoro (e foraggiamento dell’impresa) alla sua promozione; dai vincoli reciproci alle libertà reciproche. Milano, capitale del Capitale umano (Ocse), ne parli.



Ripartirà la produttività di sistema e risolveremo il 70% dei problemi. Perché li anticiperemo. E la tutela per chi non ce la fa, nessuno escluso, sarà vera, sicura, sostenibile. Significa scommettere sui nostri punti di forza: l’eccellenza nel fare Impresa e nel Capitale umano. Il futuro? Reti di grandi e piccole imprese, e professionisti dipendenti e autonomi, in libere, armoniche relazioni. È la previsione di Enzo Spaltro. Il nostro Paese affini e apprezzi questa relazione: qui maturano le qualità (ricerca, creatività, cura, precisione, bellezza) che il mondo ammira e che ci consentono di essere ottimisti. Allo scopo servono:

1° una fiscalità di vantaggio per le imprese e i lavoratori che fanno rete e formazione, impegnati a orientare il conflitto al merito delle cose. Favorire (trovare il modo) chi opera bene e innova, non – per capirci – chi taglia i costi a danno del lavoro (appalti, cooperative, precariato), come la Rsa di Botticelli a Greve, condannata dalla Corte d’appello di Firenze;

rafforzare le Istituzioni (Agenzie del lavoro) preposte alle Politiche di Orientamento, Formazione e Mobilità (Dialogo tra Domanda e Offerta); alla cura di questa Relazione. La regione Lombardia pare abbia le risorse per fare migliaia di assunzioni e potenziare i Centri per l’impiego e gli Sportelli lavoro del territorio. Lo faccia. Non aspetti l’inasprirsi della crisi;

mettere i piedi a terra. Fare un test europeo, con il necessario consenso (Confindustria, Sindacati), a Milano (con Monza e Brianza?) dove presidente dell’Agenzia Metropolitana del lavoro è Maurizio del Conte, artefice di Anpal, l’Agenzia nazionale delle politiche attive.



Ma, prima, parliamone a fondo, affrontiamo i nodi divisivi, dopo anni di asprezze. Non limitiamoci alle scazzottate. Vedi il confronto tra Pietro Ichino e Vincenzo Bavaro (Cgil) su La Lettura del Corriere della sera del 17 c.m. Rispetto entrambi ed evidenzio il limite di pensare quasi solo ex post, in negativo, in difesa: al licenziato, al disoccupato. Ichino sottolinea: la legge Fornero (2012) e il Jobs act (2015) mantengono la reintegrazione (art.18) solo per i licenziamenti discriminatori. Per il resto “le persone non vanno difese dal mercato del lavoro, cioè dal rischio di dover cercare un nuovo impiego. Bisogna proteggerle nel mercato del lavoro, cioè aiutando chi resta disoccupato, sia con un sostegno al reddito adeguato, sia con l’assistenza necessaria per trovare la nuova occupazione.” Giusto e insufficiente. Altre volte Ichino riflette ex ante (aiutare anche chi è precario o scontento, per anticipare i problemi). Lo fa, credo, nel libro in uscita “L’Intelligenza del lavoro – Quando sono i lavoratori a scegliersi l’imprenditore”.



La libera scelta è la questione decisiva, e anche l’impresa deve poter scegliere. La qual cosa è negata da Bavaro che dice: “Se l’azienda va in crisi o riorganizza la produzione in modo da rendere eccedente una parte del personale, siamo in presenza di una circostanza che giustifica il licenziamento”. Chiaro? Ci deve essere una giustificazione oggettiva, economica, organizzativa. E se c’è solo insoddisfazione e sfiducia (senza discriminazione)? È il punto, di cui non si parla. Possiamo imporre la collaborazione? Implicitamente Ichino dice no e Bavaro sì. Parlandone, potremmo forse indurli a dire: cambiamo paradigma e liberiamo sia l’Impresa sia il Lavoro (lo ha detto a Macron, efficacemente, la francese Cfdt).



Facciamo perno su fiducia e soddisfazione reciproche; sulla relazione. Se crollano si cambia. In un certo modo, con il dovuto rispetto sia per il lavoro sia per l’azienda. I mal di pancia e i pesi morti fanno malissimo all’uomo e all’impresa che deve competere con Cina, Usa, India e Indonesia (le top four al 2030; e l’Europa? Se la giocherà con l’Indonesia).



L’impresa non soddisfatta ha il diritto-dovere di porre la questione, e il lavoratore insoddisfatto (lo è il 70%!) ha il diritto-dovere di non stare seduto e rivolgersi a un’Agenzia del lavoro: mettersi in pista, prepararsi e cambiare (da posto a posto). Entrambi pagheranno qualcosa, ma l’impresa non accampa giustificazioni e il lavoratore non sta a morire di precariato e aspettare crisi traumatiche. Entrambi questi baluardi devono rimboccarsi le maniche, contribuire a questo mercato (ad esempio: quali competenze servono alle imprese?) e smettere di lamentarsi e farsi assistere.



Ma… non ci sono posti di lavoro: è l’obiezione. Pietro Ichino ricorda che ci sono “grandi giacimenti occupazionali inutilizzati” (1,2 milioni di posti). È questione di libertà, che viene prima, ha detto Bruno Trentin. La sua lucida lezione è ancora tutta lì, da studiare.



Nell’anticipare i problemi, crescono il con-correre e la produttività, e si dimezzano i costi. In realtà, il lavoratore insoddisfatto prova a cambiare, ma spesso da solo non ce la fa, perché ha fragili reti di relazione. Ed è un’ingiustizia. L’impresa invece non può. Dai 16 dipendenti è vincolata. E si è creato – ha ragione Carlo Bonomi, neo presidente di Confindustria – un certo clima “anti impresa”. Liberare entrambi! Consentire loro di utilizzare Agenzie del lavoro pubbliche o private in concorrenza: fare il libero mercato del lavoro. Pubblico e privato possono collaborare in molti modi e le Associazioni d’imprese e i Sindacati dei lavoratori sono liberi di contrattare, favorire, orientarsi alla reciproca scelta tra imprenditori e lavoratori, come auspica Ichino. Ma, attenti, il diritto-dovere deve essere in capo ai singoli soggetti. E c’è un soggetto debole, il lavoro, che va accompagnato. Un po’ come faceva don Bosco nell’800: orientare, formare, aiutare, accompagnare.



Milano e Monza e Brianza sono pronte con le loro storiche AFOL – Agenzia Formazione, Orientamento e Lavoro. Il privato pure. Diamo retta a Salvatore Natoli!



Era – l’anticipare, non lamentarsi, non stare seduti, non farsi assistere, a debito! – nello spirito e nella lettera della Flexsecurity europea che in Italia non ha avuto corso. Merita, questo passo, di essere da tutti riletto e meditato:“La flessibilità significa assicurare ai lavoratori posti di lavoro migliori, la ‘mobilità ascendente’, lo sviluppo ottimale dei talenti. […] La sicurezza, d’altro canto, è qualcosa di più che la semplice sicurezza di mantenere il proprio posto di lavoro: essa significa dotare le persone delle competenze che consentano loro di progredire durante la loro vita lavorativa e le aiutino a trovare un nuovo posto di lavoro.” (Verso principi comuni di flessicurezza. Comunicazione della Commissione europea – 27.06.2007).



Francesco Bizzotto

mercoledì 20 maggio 2020

IL FUTURO DIFFICILE PER GLI ATTACCHI INFORMATICI


IL PROSSIMO VIRUS SARÀ VIRTUALE?


Internet è diventata una macchina da guerra che attacca enti e società semplicemente per ricattare le vittime ma anche da semplici “odiatori” che attaccano sopratutto piccole società, professionisti o cittadini per la gioia di infastidire e dimostrarsi “potenti”. Le difese non saranno mai troppe.


Nel documento Milano 2020, Strategia di adattamento del Comune di Milano, relativo al coronavirus, si parla anche di servizi digitali e delle azioni immediate relative a connettività, integrazione dati, educazione digitale e, in generale, l’ampliamento dei servizi digitali al cittadino.

Tutti gli sforzi adesso sono concentrati contro il Covid 19, ma è importante pensare anche al prossimo virus, che potrebbe infettare la società, quello virtuale, più letale che mai. Infatti la rete è un campo di battaglia dove si muovono pirati di ogni tipo, da chi agisce “in proprio”, a chi lo fa per conto di apparati statali e dall’altra parte, aziende, amministrazioni locali e governi che tentano di contenere i danni.

Recentemente c’è stata un’ondata di ransomware, una tecnica che gli hacker utilizzano per bloccare un dispositivo e chiedere un riscatto per ripristinare l’accesso. Con questa pratica sono state attaccate Renault, Disney, Fedex ed anche il sevizio sanitario britannico. Questa pratica non colpisce solo multinazionali, sono possibili vittime anche piccole aziende e professionisti. Per questo è’ fondamentale che aziende e Pubblica Amministrazione comprendano l’importanza della protezione e di comportamenti idonei nella prevenzione.

Non è possibile progettare un sistema che resista a qualunque assalto, ma si può costruire una modalità che consenta di ripristinare velocemente il sistema che è stato compromesso. La sicurezza deve essere soprattutto concepita come capacità di ridurre il rischio e di procedere correttamente al ripristino dei sistemi, così da ridurre al minimo il tempo di indisponibilità.

Milano è il centro di questa potenziale offensiva. Non a caso, il mercato digitale cresce dell’1,5 per cento, con la security che sale del 4,4 per cento. Le imprese dell’artigianato digitale in Lombardia sono 2.000 e a Milano hanno avuto un forte sviluppo, con più di 500 società.

A Milano non ci sono solo tecnologie e imprese da difendere, infatti sta consolidandosi un laboratorio destinato a fare argine agli attacchi hacker, questo è il Bislab dell’Università Bicocca Milano, un organismo operativo super partes come spiega Andrea Rossetti, fondatore del laboratorio, aperto al mondo istituzionale, alle imprese, ai professionisti con i loro risvolti legali.

Massimo Cingolani


martedì 12 maggio 2020

FRATELLI MAGGIORI (3)


GIANFRANCO TROIELLI



Faccio memoria, in questa 3° tappa, di un assicuratore socialista fuori dagli schemi: Gianfranco Troielli. Per me, l’assicuratore più potente e sorprendente dei 4 decenni visti. Un nome che a Milano ancora rimbomba, e non per effetto di Mani pulite, che l’ha azzoppato senza fare verità (dirò, in senso sostanziale). Troielli – il sistema Ina – aveva intuito che la Previdenza familiare è il 1° pilastro sociale ed economico, e la forma più bella di risparmio privato. Questo, è il punto di forza del Paese, che tiene fin che lui tiene. Servono esempi? Vedi alle voci gioventù, lavoro, terza e quarta età infinite, investimenti infrastrutturali. Con quali soldi? Il risparmio previdenziale è garanzia di libertà in ogni ambito di rischio: personale, comunitario, sociale. Troielli? È stato un maestro. Non di libri e anime belle. Un imprenditore che guardava al guadagno, e che – insieme – aveva uno scopo e obiettivi di cui era orgoglioso; fiero. E non lo diceva in giro. Non gli interessava e non l’ha detto. Scopo e obiettivi li vedeva e mirava. Li faceva. Come si fa la verità. Era il tipo di imprenditore descritto da Joseph Schumpeter. Ora, per Troielli chiedo rispetto, alla memoria. Questo abstract è per chi non ha tempo. Ma, se legge l’articolo, capisce cosa s’è buttato nel 1992 a Milano.   LEGGI QUI PER CAPIRE

“La figura viva ha bisogno di profonde ombre per apparire plastica. 

Senza le ombre rimane un’immagine fallace e piatta”


 C.G. Jung, L’io e l’inconscio. Ed. Boringhieri pag.161

Torno a ricordare un’altra persona tosta conosciuta: Gianfranco Troielli. Aveva tre lustri

più di me e tratti splendidi. Certo, luci e ombre, come tutti noi. Il mio è un atto sociale e un riconoscimento. E insieme un racconto di me, del mio lavoro e del mio impegno. 

  GIANFRANCO TROIELLI negli anni ’80 era l’Agente generale del Gruppo Ina Assitalia a Milano: la più grande agenzia di assicurazioni d’Europa. Lui, amico personale di Bettino Craxi (“da ragazzi”), era il tipico imprenditore esaltato da Schumpeter: visionario, creativo, sfidante e incredibile. Io, a 39 anni, ero da 20 un assuntore di rischi industriali di scuola americana, orientato alla formazione e preso dalla Politica. Da un po’ avevo lasciato il Sindacato, mi ero iscritto al Psi ed ero in Consiglio comunale a Paderno Dugnano. Gli dissi: “Non c’è libertà senza rischi, e dunque senza Assicurazioni”. Lo penso ancora. Mi assunse (1987) per fare formazione, dicendo: “Ti affido la cosa più preziosa: la rete di vendita; facciamola crescere”.

Avevamo a Milano città 500 splendidi venditori in 100 sub-agenzie, e andavamo a mille. Ina – con il presidente Antonio Longo e le polizze Vita Rivalutabili – aveva anticipato il mercato e fatto un ottimo lavoro (polizze di risparmio previdenziale). Io parlavo di Rami Danni, delle tutele (di Assitalia) nei rischi, a complemento delle polizze dell’Ina. Dicevo: “Il Gruppo pubblico libera la famiglia dai grandi rischi; mette un secondo motore alla Previdenza”. Lessi del Gruppo tutto quel che potevo e ne sentii un incredibile fascino.

Ina, Ente pubblico nato nel 1912 (quarto governo Giolitti), portava nelle scuole quaderni che parlavano di Previdenza, costruiva splendidi edifici nelle grandi città e, nel secondo dopoguerra, 350mila alloggi popolari. È il Piano Fanfani (INA-Casa, 1949), ben visto da Adriano Olivetti e passato in Parlamento con l’opposizione di Comunisti e Socialisti. C’è un Fondo Storico che documenta 19.000 immobili di pregio fatti costruire a firma dei più grandi architetti del secolo. Un gigante che ha sempre dato utili al Tesoro del Paese.

Troielli pensava, dunque, a una Previdenza tutelata e liberante (sarebbe piaciuta al sindacalista Bruno Trentin). Forte di ottimi risultati sia commerciali sia tecnici (il rapporto tra sinistri pagati e premi incassati), Troielli stava un passo avanti e si batteva apertamente perché le gestioni finanziarie dell’Ina fossero “sostenute” e perché Assitalia affinasse le sue tutele. Qui i momenti chiave erano due: la polizza e il sinistro, il danno. Assicurati i rischi più significativi (ad esempio il reddito della famiglia, la sua autonomia), quando c’era un danno ci si doveva fiondare a portare il denaro d'emergenza alle famiglie previdenti: un concreto obiettivo di servizio. Fece un accordo in tal senso con Assitalia, garantendo un lavoro organizzato, verificato, pulito. Me ne diede la responsabilità. Io coltivavo l’idea dei tre momenti: informazione / prevenzione, polizze mirate e pronto indennizzo. Fare prevenzione conviene, dicevo: giochiamo d’anticipo, la libertà si fa responsabile e la vendita è più ricca.


Gianfranco mi lasciava dire e fare. Sentivo che era d’accordo. Mi diceva: “Le organizzazioni costano; non possiamo permetterci di stare nel gruppo; dobbiamo correre davanti, andare veloci. Essere i migliori e guadagnare di più.” Schumpeteriano! E non mi faceva sconti. A volte mi diceva: “Hai un po’ del sindacalista”. Aveva avuto rapporti burrascosi con i sindacati. Io riflettevo e tenevo il punto. Avevo amato il Sindacato dei miei 20anni; quello di Vincenzo Calzolari (Cgil) e Giorgio Ceriani (Cisl); il sindacato che urlava: “300 miliardi in case popolari e non nelle banche di Sindona”. Mi sentivo in credito con il mondo e in perfetta sintonia con l’Ina. Guardavo avanti e sapevo che dovevo crescere.

Contribuimmo alla pubblicazione del testo del Politecnico di Milano “La sicurezza in casa” (CittàStudi, 1991), grazie all’intuito e coraggio della prof.ssa Adriana Baglioni. E mettemmo a punto due polizze di Assitalia a tutela del reddito e del patrimonio delle famiglie clienti di Ina. Sapevo di poter contare su un 30% di margine tecnico (l’azzeramento dei danni colposi e dolosi). Anni 1989 – 1992. Volle che andassi con Lucillo Pitton in diverse radio cittadine a parlarne (da Radio Popolare a Nova Radio a Radio Meneghina). Seminavamo.

Ho un appunto di sua mano che dice tutto: “Bisogna stare molto più vicino al cliente”. Intanto il mercato diventava europeo e Troielli pensava di usare la forza e il metodo di Milano per aprire Agenzie (sensori) del Gruppo in grandi città come Parigi, Berlino, Mosca. Anche qui: anticipava! Io ero gasato e sognavo di aprire un “Caffè Ina”, centralissimo, che fosse una pubblicità in sé e un selfie di Milano; che offrisse materiale, informazioni e pubblicazioni dal mondo intero sulla Previdenza Tutelata per la Vita Libera e Attiva. Sapevo anche dove. Quando ci passo davanti ancora mi emoziono. Ci lavorerei anche adesso.

Aveva un’idea commerciale che ci misi un po’ a digerire: “Dobbiamo fare gli interessi del cliente nonostante lui”. Voleva dire: siamo noi i competenti e i responsabili. I clienti sono attratti da mille offerte che li portano a vagabondare e a essere incauti. Gli italiani? Campioni del mondo in spese per viaggi, ristoranti e – di lì a poco – telefonini. Nostro compito è portare un messaggio di valore (la Previdenza tutelata); non subire le fantasie televisive, il consumo leggero. Le famiglie dei clienti ci sono grate, e ancor più in futuro. Una vendita arrendevole non ne viene a capo.

Dei venditori chiedeva: “Quanti appuntamenti fa al giorno?” Sopra i 4 sorrideva e annuiva. E mi diceva: “E noi controlliamo che nessuno bari, che non disfi la tela”. È la vendita di massa organizzata. Aveva ragione! Tanto più con l’innovazione della Previdenza con tutele: giusta, liberante, scatenante. Sul piano amministrativo c’eravamo, ma era nebbia ancora su quello informatico; non ne era contento; non si piegava alla vendita.


Troielli era uomo di responsabilità e di potere. Con un cruccio: amava molto ma dedicava poco tempo alla famiglia. Era libero, attento e relazionale in ogni direzione: sia in alto (il Gruppo, i partiti, le Istituzioni) sia con i colleghi Agenti, la sua rete e gli assicurati. Forte di una lunga esperienza (era entrato all’Ina di Milano a 26 anni, nel 1959), ambiva molto, mediava, si spendeva e decideva. Riconosceva, non escludeva nessuno e rischiava.

Il mondo Ina aveva svolto un ruolo e compiuto un percorso straordinari: la cultura della Previdenza c’era nel Paese; e aveva creato valore in tutte le direzioni. Ricordo cosa uscì da un Focus group sulla percezione del mercato: “Dico Ina e penso alla Previdenza”. E poi, molti Enti e Istituzioni, nazionali e locali – per loro importanti progetti che fecero l’ossatura del Paese – avevano attinto a risorse create dal Gruppo. E dopo, certo, lo avevano favorito. Chi poteva avere qualcosa da dire, con quel che girava nei salotti bene dell’impresa privata?

In mezzo c’erano tante persone e i partiti, “con un ruolo da rispettare”, diceva. E un certo andazzo. Io pensavo: se guardo ai tempi indietro, era peggio e senza dinamica; ne usciremo. L’organizzazione del sistema era complessa e ricca di ombre. Come sempre, quando sei davanti e favorito. Si creano intrecci gestibili in chiaro fino a un certo punto. Mi raccontarono che, con l’alluvione del Polesine (1966), Troielli fece arrivare in un ospedale milanese un camion di vestiti e coperte per l’emergenza. Dopo, anche le suore invitavano le infermiere a “non comprare le calze di nylon ma farsi la Previdenza”. Per dare l’idea.


A fine anni ‘80 il Gruppo pubblico, pur con il vento in poppa, doveva cambiare. Troielli non era convinto della privatizzazione di cui si parlava. “Significa rompere il giocattolo. Il Gruppo Ina Assitalia – diceva – ha già un mix ideale: pubbliche sono la proprietà e le finalità; privato è il motore, la potente rete commerciale, ben organizzata e molto competitiva”. Le posizioni erano trasversali. C’erano altre soluzioni. Il Gruppo guardava a lui.

Ne ebbi prova un giorno a Roma a un convegno. Io cercavo segnali di apertura alle mie idee sulla assicurazione quantistica (che influenza i rischi con la Prevenzione dei danni), quando mi si sedette accanto Mario Caltabiano, leader del Pci e della Cgil nell’Agenzia generale in gestione diretta dell’Ina Assitalia di Roma. In Cgil ci eravamo stimati: lui maturo e riflessivo; io in ricerca e mai zitto. Quante discussioni! La sua confidenza mi sorprese: “Si parla di Gianfranco per la presidenza dell’Istituto. Se esce il suo nome, noi lo sosteniamo”. Parlammo dell’importanza di lavorare bene; vivere bene e avere fiducia. Capii cosa bolliva in pentola. A Troielli fece piacere. Mi disse qualcosa del genere: “Gli ex comunisti? Gente seria, anche se faticano, per vecchie ragioni, a vedere l’impresa, la libertà, la concorrenza”.


Poi vennero gli anni di Mani pulite. Troielli era stato vice presidente delle Ferrovie Nord (“Mi porta via alla famiglia tante sere”) e altro. Sui soldi era lucido, serio: “Dare e guadagnare”. Aveva lavorato in banca. Se ne intendeva. E Craxi si fidava. Lui non era tipo da abbandonarlo, anche se critico con la Politica di quegli anni. Aveva lavorato e fatto impresa. E quale impresa! Ora però si sentiva accerchiato, venne coinvolto e non si fece trovare. Dopo oltre 5 anni, nel 1997 (la moglie Fausta era malata e poco dopo morì) rientrò, affrontò le accuse sfiduciato, senza lottare come era solito. Patteggiò. Ne venne fuori. Provato, morì nel 2005 a 72 anni. Sono mancato al suo funerale; ero lontano con la famiglia.

Mani pulite. Io sono molto critico con i Magistrati (ma, in primis, con la Politica) di quella stagione. Ho rispetto per i Borrelli e i Colombo, e penso: non abbiamo saputo mirare a una soluzione istituzionale; non c’è stata sintonia e rispetto per il Paese, ma fretta e cecità. Serviva una soluzione anche politica, che facesse verità e mettesse in campo modalità avanzate, più giuste, di relazione tra Politica, società e affari. Per una Giustizia sia al presente sia al futuro. L’una, mi pare, non esiste senza l’altra. Le pratiche illegali sono isolamenti. Solo una rete di nuove relazioni (responsabilità reciproche, trasparenti) vi può porre stabile rimedio. Servivano grandi visioni. Siamo ancora lì: l’italietta degli 8.000 Comuni con sguardo basso. Vogliamo che alzino lo sguardo, prosciugare la palude? Triplichiamo gli incentivi a consorziarsi, fare squadra e hub di servizi. Pensieri, non certezze.


Torno al punto. A me fu chiesto, nel 1995, abbandonata l’idea della Previdenza che libera e responsabilizza, di seguire le gare per le assicurazioni Danni dei grandi Enti pubblici: complicazioni e opacità. Ricordo cosa diceva Troielli: “Qui non guadagniamo”.

Poi, nel 1998, le Generali acquisirono il Gruppo pubblico Ina Assitalia indebolito (presidente del Consiglio Massimo D’Alema). Si diceva che avesse immobili per 20.000 miliardi di lire. Nel 2003 io avevo fatto 40 anni di lavoro e andai in pensione.

Poco prima, vidi Gianfranco al Caffè Rosa, in S. Babila: parlammo della nostra rete e del progetto. Pur infragilito, ci credeva ancora. Lo ringraziai e abbracciai.

Francesco Bizzotto