OCCUPAZIONE:
COMPRENDO, PARTECIPO, CONCORRO
“Favorire la formazione mirata e il costante aggiornamento per incontrare la domanda delle imprese e cogliere i margini di occupabilità difficile (un consistente 20%)”. Lo dice Maurizio Del Conte, giovane presidente di ANPAL, l’Agenzia Nazionale per le Politiche Attive del Lavoro. E qual è la domanda? Le Camere di commercio sono impegnate a rilevarla, con la regia di ANPAL. In Lombardia, Brescia ha già una bella immagine della sua dinamica industria. Milano è due passi indietro, con le sue grandi imprese e Istituzioni, i servizi avanzati e una ricca industria di precisione nel Contado. Qui la domanda di lavoro è complessa e poco indagata. Una nebbia anni ’70.
La questione non
riguarda solo l’occupazione. Serve capire come si orientano le imprese e quali
competenze gli occorrono per mettere in campo le capacità e conoscenze giuste.
Per orientare le famiglie, gli Istituti professionali, le Università e i
formatori. Una relazione da strutturare in modo reciproco. Altrimenti come si
fa a fare futuro? Nella separatezza, vince lo spreco autoreferenziale, perfetto
nella buona fede, e il Paese perde pezzi di pregio (i giovani). Comprendere la
domanda di lavoro significa indirizzare le Istituzioni formative e chieder loro
il conto.
E non solo.
Significa alimentare nei giovani, troppe volte isolati, confusi e disperati
(apriamo gli occhi: 500 suicidi all’anno sono un incubo!), la mentalità del
prender parte responsabile, del concorrere a creare le società di riferimento.
È ciò di cui c’è bisogno per affermare il valore europeo della libertà
personale che, appunto, con Giorgio Gaber, “non è star sopra un albero” (avere
orario e stipendio personalizzati), “è partecipazione” (capire e dire dove va
l’azienda e il mondo): pre-condizione di chance e di uguaglianza; presupposto
di mobilità sociale, di differenze meritate, di giustizia. Indagare la domanda
di lavoro (a Milano!) ha questo intenso riverbero sui giovani: mostra che la
società vuole essere giusta perché è aperta, rischiarata, e dunque rischiabile.
E Milano dà il tono al Paese.
Un esempio? La
Germania, una società organizzata e ambiziosa. Non a caso ha due oliati livelli
di democrazia economica: la partecipazione dei sindacati alla gestione delle
grandi imprese e l’Agenzia pubblica del lavoro Ba, che accoglie e accompagna
nella ricerca chi è senza lavoro e chi lo vuole cambiare per crescere. La Ba ha
100mila operatori; il nostro scalcagnato sistema di Centri per l’impiego 8mila,
e l’Agenzia metropolitana milanese AFOL (costata 2 miliardi) è in frigorifero.
Allora, per fare
oggi mercato del lavoro, serve l’Istituzione per le Politiche attive centrale
(nazionale ed europea: bene ANPAL, va posto il problema a Bruxelles!) e locale:
un attore pubblico-privato, largamente partecipato, che anticipi le crisi
produttive e di relazione, e favorisca il dialogo, un vero match, tra domanda e
offerta. La scelta del collaboratore (e dell’imprenditore) deve avvenire per
confronto diretto e plurale, perché i fattori che contribuiscono alle decisioni
sono a “razionalità limitata”, direbbero i Nobel per l’economia Daniel Kahneman
(2002) e Richard Thaler (2017). Si tratta di competenze e di soldi, e di
affinità, sintonie, simpatie. Premesse di armonie.
Questo hanno
fatto i Paesi cresciuti più di noi in Pil e occupazione. Questo dice l’Europa
(Marianne Thyssen, commissaria per l’occupazione: le Politiche attive del
lavoro in Italia sono “incomplete e carenti”). E solo questa scelta forte di
accompagnamento istituzionale giustifica un certo tasso di precariato
(l’economia dei lavoretti, il lavoro a chiamata che cresce a doppia cifra) e
farà rientrare il diffuso rancore. Non basta descrivere ciò che è evidente,
come fa troppa stampa (ad esempio Luca Ricolfi sul Messaggero del 25 u.s.).
Senza
l’articolata Istituzione per le Politiche attive, i rapporti di lavoro,
promossi da relazioni casuali o familiste o sbilanciate, restano scentrati. Da
qui i faticosi aggiustamenti successivi e l’insoddisfazione delle parti (il 58%
dei lavoratori, mentre l’imprenditore vuole avere mani libere per licenziare se
la collaborazione non gira). Non son proprio condizioni per quel che serve: la
dedizione, la cura, la creatività, l’innovazione.
Al cuore della
questione c’è un tema mal digerito nel bel Paese: il Mercato, luogo regolato di
libera concorrenza tutt’altro che conservatrice. Dice Georg Simmel in
Sociologia, 1908 (Edizioni di Comunità, Milano 1989, p. 246):
“Della
concorrenza si sottolineano di solito gli aspetti velenosi, dispersivi (…).
Accanto (… vi) sta però pur sempre un enorme effetto associativo: la
concorrenza (…) moderna, che si contraddistingue come lotta di tutti contro
tutti, è però al tempo stesso lotta di tutti per tutti.”
I giovani amano
il libero concorrere. Sono assai più refrattari i “vecchi” adulti, la P.A. e le
grandi imprese: tre colossi che praticano la statica, il trantràn, le furberie
e la gestione (il taglio dei costi, fermo il resto).
Come affermare la
concorrenza? Servono un bel dibattito, dati chiari e tre passi: 1° evidenziare
l’indirizzo europeo e del Paese; 2° comprendere a fondo l’orientarsi e la
domanda di lavoro delle imprese; 3° mirare in modo convergente all’Istituzione
che favorisca il rispetto e il match tra detta domanda e l’offerta.
Senza scelte
politiche chiare e avanzate c’incartiamo, senza libera impresa non c’è né
lavoro né futuro, e senza libero lavoro perdiamo.
Francesco Bizzotto
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