mercoledì 23 maggio 2018

RECEPIMENTO DELLA DIRETTIVA IDD


EUROPA E GOVERNO DELLE ASSICURAZIONI

Il Servizio è orientato alla Prevenzione e a Investimenti e Polizze “prospettici”

Gli Intermediari vanno incentivati alla Gestione dei Rischi (Informazioni e Prevenzione)

Va misurata la soddisfazione dei Clienti e studiato un Controllo di Gestione partecipato



L’Europa avanza anche nel mondo assicurativo, tra geniali intuizioni (Solvency II), tentativi e qualche limite. L’Unione è ricca di esperienze e molto articolata. I Paesi europei, per vincere nella competizione globale, comprendano e accettino un forte ruolo dell’UE.

I Servizi Assicurativi sono un cardine dello sviluppo atteso (responsabile, sostenibile, di qualità alta), hanno un ottimo potenziale di crescita e mostrano positive dinamiche. Solvency II esalta il ruolo di Investitori istituzionali delle Compagnie e le indirizza verso Investimenti e Polizze prospettici, ovvero indirizza alla Gestione dei Rischi in tutte le fasi della loro formazione, dalle Infrastrutture pubbliche alle Relazioni con i Clienti, dai Processi produttivi alla vita privata.

Il ruolo degli Intermediari di Distribuzione e Servizio è centrale in questo mercato. L’UE lo indirizza con la Direttiva IDD (Insurance Ditribution Directive – 97/16) in discussione in Parlamento: il Governo Gentiloni ha emanato il Decreto di recepimento. Opinioni diverse e pressioni si sono confrontate, come è normale.

Auspichiamo che il ruolo di Agenti e Broker sia accresciuto da un più chiaro indirizzo alla cura della Relazione con l’utenza e alla innovazione di Servizio. Agenti e Broker devono essere soggetti attivi (anche consorziandosi tra loro) e avere più chiari incentivi – anziché ad alzare i volumi d’incasso – alla Gestione dei Rischi (Informazioni e Prevenzione) e dei Sinistri. E anche la soddisfazione dei Clienti è tempo che sia misurata (da soggetti terzi) e premiata.

Poiché Solvency II valorizza gli investimenti assicurativi con la Gestione in grande dei Rischi – a partire dalle infrastrutture economiche e sociali che danno loro una decisiva forma di base – il Governo esplori l’utilità di Controlli di Gestione interna partecipati dagli stakeholders (in primo luogo Agenti e Broker). Perché l’aspetto finanziario è tutt’altro che separabile da quello industriale.


giovedì 17 maggio 2018

UNIRE MILANO


MILANO E LA CRESCITA

Uniamo Milano e diamole visione larga e generosa. Avrà peso politico



Milano ha una visione politica ingenua, individuale, verticale: ciascuno sta con il naso all’insù; guarda a Roma, all’Europa, al mondo, e non fa squadra. Non conosce la regola aurea del potere, il lavoro di gruppo. Pochi anni fa la sinistra aveva due cavalli di razza (Giuliano Pisapia e Stefano Boeri) e subito si son fatti guerra. In ogni ambito, se non fai politica di gruppo non conti; anche nelle attività pratiche le tue esigenze non trovano spazio. In televisione passa altro e tu devi difenderti, stai a lato e hai già abbastanza, ti dicono. Fatichi a far passare le tue vere esigenze.

Il Corriere della sera è un media aperto e attento; affronta le questioni con competenza e intelligenza. Non basta. Per esempio: la Crescita. Quella che serve a Milano è qualitativa, e dunque articolata, selettiva, governata: una Crescita per via creativa e innovativa, che si fa apprezzare ed è basata su esperienza, ricerca, utilità, stile, buon gusto. Accanto – ça va sans dire – ci sta (ci deve stare) una de-crescita delle quantità, degli ingombri, dei rumori, delle volgarità e degli inquinanti di ogni tipo. Con inevitabili conseguenze e ricadute nelle infrastrutture, nelle abitazioni, nei sistemi di trasporto e servizi alle imprese e ai cittadini. Tutto è da ripensare alla radice. Va detto (nelle grandi città si sta facendo): ripulire, asciugare, rendere semplice, bello ed efficiente.

È questa la via maestra della Crescita, dell’occupazione e dell’efficienza. Esempi: pensare a un’urbanistica non separata (Le Corbusier) che porti hub di servizi ai cittadini e non il contrario, in un finimondo di spostamenti; recuperare verde (portare in altezza abitazioni e produzioni); definire sistemi larghi di trasporto pubblico veloce e di mobilità urbana condivisa; gestire i rischi ambientali e produttivi (prevenzione e protezione: anticipare, non aspettare i Cigni neri). È la potente domanda (latente) di Milano. Manca la forza di agire in autonomia, che viene solo dalla coesione. E la solidarietà con il Paese? Si esprime nel fare bene Milano. Essere esempio e laboratorio.

E non mancano le risorse. L’Assicuratore, investitore istituzionale da 500 miliardi, è tenuto – su indirizzo europeo (Solvency II) – a investire in infrastrutture materiali e sociali che riducano i rischi di prospettiva. La sua disponibilità è esplicitata (15 miliardi) e favorisce gli azionisti: migliora infatti il risultato tecnico e diminuisce il capitale di garanzia (di solvibilità). Geniale Europa!

Con un editoriale di Francesco Giavazzi, il Corriere del 13 maggio prende posizione per la Crescita e snocciola ragioni, ma non va a fondo, non mette in campo una visione che sia bella, faccia futuro, unisca Milano e le dia peso politico. Dice Giavazzi: se l’Italia non cresce, il debito la affonda; mentre gli investimenti privati vanno (+ 7,3% in un anno), l’efficienza produttiva (2001 – 16) è calata del 2%, in particolare nelle Piccole imprese, nella PA e nei servizi (invece in Germania e Spagna è cresciuta: 10% e 2%). Secondo la BCE, le cause della nostra mancata Crescita sono la caduta di efficienza (50%) e la scarsità di investimenti e di partecipazione (50%). L’Italia è ferma perché lo è la sua PA (che non investe, costa e complica) e perché utilizza male il capitale umano, che infatti è insoddisfatto del lavoro per il 68%.

E Giavazzi? Consiglia di mettere manager al posto di figli e nipoti nelle Piccole imprese, e di favorire la concorrenza. Sulla concorrenza sono d’accordo: fa uscire il meglio. E cosa c’è di meglio del concorrere in gruppo del capitale umano (dell’armonia delle reti)? Sono allora centrali infrastrutture sociali (Agenzie dei Lavori) che promuovano il capitale umano a fattore primario di concorrenza (di contributo) nell’impresa e nella società. La Germania va perché ha trovato un suo equilibrio, fatto di cogestione nelle grandi aziende e di mobilità del lavoro nelle piccole. Ma da noi è tutto un tabù. Smettiamola di parlare da soli.

Francesco Bizzotto 

lunedì 7 maggio 2018

RIFLESSIONI SU UN EDITORIALE


POTERI FORTI

Panebianco picchia su magistratura e vertici della PA. Ma è la politica che deve crescere. E solo il lavoro di gruppo, in trasparenza, alla base, può ridarle autorevolezza e ridurre la corruzione



L’editoriale del Corriere della sera – 30 aprile di Angelo Panebianco è un soprassalto del giornalismo. Dice pane al pane: i poteri forti sono le tecnostrutture di vertice delle magistrature e della PA. Andrebbero consultate prima di fare il governo, se no è “a rischio di decapitazione politica”. Sono forti perché la politica rappresentativa è “debole e ricattabile”; ha ceduto potere, s’è creato uno squilibrio. Le tecnostrutture vogliono politici “disposti a inginocchiarsi in loro presenza e a baciare l’anello”. Sono indifferenti o ostili “verso l’economia di mercato” e difendono “un’impalcatura normativa fatta apposta per tenere in scacco le imprese e lontani dal Paese gli investitori esteri (la vera causa della disoccupazione giovanile)”. Alimentano un’ideologia anti industriale e l’espansione della spesa pubblica. Il M5S è un loro “sottoprodotto” ed “effetto collaterale”, e la grande bugia, in circolo da 30anni, è che la corruzione sia molto alta, mentre è nella media europea.

Forte del principio di non abbassare l’alto ma alzare il basso, non farei a buoni e cattivi. Mi pongo due domande: perché la politica è debole? Come ridurre la corruzione?

La politica rappresentativa è in crisi perché i cittadini trovano inadeguata la delega totale con molti talk show di percorso e giudizio finale sull’operato. Vogliono un politico con idee belle e motivate, e con capacità di ascolto, di decisione e di rendiconto. Insomma, uno che ha di suo e si relaziona e misura, cambia anche, propone indirizzi, fa sintesi e operatività. Un capace coraggioso. E di passaggio. Infatti, il professionismo che s’è impadronito della politica ne ha minato l’elemento forte: la passione. Senza, è tutto un non dire per non scontentare (ed essere rieletti). La Politica dev’essere impegno temporaneo di molti, in cui s’impara e s’invita a lavorare su se stessi, a liberarsi dal Piccolo io (Etty Hillesum) e a vedere la squadra (il Paese, la Terra). Sapendo che, se dai molto, ricevi di più e cresci.

Ma, la politica debole da chi è veicolata? Dai partiti. Sono il problema. Ho la tessera del Pd e anche lui ha le sue, se è vero che discute in modo poco organizzato, continuativo e finalizzato (ma discute: e chi altro?). E ora tutti lo vogliono dentro, se no cosa resta? C’è un problema fondativo, costituzionale. I partiti sono spesso il trasporto (il tram) di ambizioni di carriera organizzate (queste sì). Non è ben chiaro come prendono le decisioni. Anche per questo nessuno le accetta, e fioccano divisioni, drammi e rancori. Decidono senza “concorrere con metodo democratico” (Costituzione, art. 49). Mettono in pericolo il Paese e non lasciano cauzione. Perché le differenze siano una ricchezza (un dono) occorre che il percorso delle decisioni sia evidente e misurato. Direi: occorre che sia un Rischio.

E la corruzione? Non mi adagerei sulle medie. Siamo abituati a guardare in alto (il pesce puzza dalla testa). Dobbiamo guardare dappertutto, come quando camminiamo. Abbiamo badato poco ai “rami bassi” della PA. È lì il terreno fertile (il rizoma) che nutre tutte le pastoie. Se è vero che il Federalismo comincia dalle periferie che si rimboccano le maniche, assumono responsabilità e si fanno forti (vedi “Appello per Lecco”), anche la lotta alla corruzione passa per un cambiamento alla base della PA. Come? Esempio: unire o consorziare i troppi Comuni per valutare i problemi in ottica larga e far lavorare in gruppo sindaci, assessori e tecnostrutture locali (rieccole!). Rendere credibili e comprensibili le decisioni: così cresce la Politica e si fa trasparenza. Al buio tutto imputridisce.

Francesco Bizzotto

giovedì 3 maggio 2018

MARCO BENTIVOGLI




“L’industria del futuro per essere sostenibile e competitiva, non può non prevedere la partecipazione del lavoro organizzato e dei lavoratori alla gestione strategica dell’impresa”



Così Marco Bentivogli (Segretario generale Fim Cisl) su questa News a proposito dell’accordo Alcoa (produzione di alluminio in Sardegna): nel capitale societario di Sider Alloys entra Invitalia e anche i dipendenti con un 5% delle azioni e un posto nel Consiglio di Sorveglianza. Il coinvolgimento, la partecipazione dei lavoratori alla gestione d’impresa è all’ordine del giorno ed è sia di destra che di sinistra (Ah, Gaber!). Vediamone le ragioni:

1. L’articolarsi, differenziarsi e crescere degli individui (consumatori e produttori), frutto e merito, in Occidente, del liberalismo e delle battaglie di emancipazione, ha reso impraticabile, inefficiente, l’organizzazione piramidale, la via dell’autorità formale (forza separata, violenza): il comando, tanto nelle intraprese quanto nei gruppi informali, nelle famiglie e nelle coppie (come nella stessa idea di Dio), è ad alto rischio di ridicolo, se non è credibile, utile e riconosciuto; se non cattura e promuove. La stessa proprietà è sul sentiero del dramma o della commedia se non si legittima con passione, preparazione, dedizione, capacità specifiche, in primis relazionali: saper fare gruppo armonico.

2. Individuo e società, impresa e lavoro hanno con-vinto. È la forza dell’Europa a cui il mondo guarda e che cerca nuove sintesi. L’iniziativa, l’intrapresa, ovunque, tende ad assumere la forma della rete di competenze che collaborano e sono ampiamente responsabili (abili nel dare risposte e contributi in ottica di sistema). Al centro ci sono le relazioni e i processi; la forma. Il come si prendono le decisioni e si fanno le cose conta più delle idee e della sostanza, delle cose, delle produzioni. Il come viene prima e quindi è più importante. La forma determina la sostanza, che è latenza. Un capovolgimento. E ciascuna parte si spiega nel sistema a cui contribuisce, non al proprio interno; in alto, non in basso. Il nostro errore? Separare gli aspetti, mentre solo a mezzi buoni, a buone relazioni, possono conseguire fini giusti e sostenibili. Vi sembra poco? Siamo in zona Cesarini.

3. Per inciso: riscoprire la centralità del processo, delle relazioni e dei mezzi, del come si sta insieme e si opera, porta a ritrovare l’importanza e il significato del rischio, che è padrone del processo e scompare se mi concentro sulla possibilità teorica (il sogno) o sul risultato immaginato o raggiunto. La consapevolezza del rischio e la sua gestione rischiarano a puntino e rendono bella e sostenibile (e, ovviamente, limitata) l’opera nel suo contesto.

4. Chiamare i lavoratori a partecipare (poco o tanto) alla vita dell’impresa significa attivare l’area di produttività sostanziale (interessata, attiva) anziché quella solo formale e passiva (manodopera). Significa promuovere produttività latente. Raddoppio possibile.

5. Favorire relazioni d’impresa partecipative, conflittuali nel merito dei problemi, significa liberare tutti i soggetti (direbbe la francese Cfdt) e richiede un’Istituzione nuova, esterna, che si faccia carico del conflitto di relazione. In azienda è un cancro; va portato fuori e risolto. Meglio: anticipato. Le Agenzie del lavoro o Centri per l’impiego locali e le Politiche attive (orientamento, formazione, accompagnamento) divengono strategici e di comune interesse. Perché l’impresa e il lavoro sono, entrambi, delicati beni comuni. Un altro mondo.

6. Caricare i lavoratori, in particolare i giovani, di responsabilità, chiamarli a contribuire e concorrere (misurarsi), a meritarsi una collocazione e un riconoscimento (in azienda come nella società – no profit), significa aiutarli a leggere il futuro non come minaccia (un pericolo incerto che spaventa) e nemmeno come promessa (c’è solo da raccogliere, senza impegno e problemi) ma come rischio. E rischio dice di una realtà in cui t’impegni, incerta ma valutata, sostenibile (una probabilità) e dotata pure di un paracadute per coraggiosi (vai tranquillo, se ti ritrovi in difficoltà, ti sosteniamo, ti aiutiamo). In quest’ottica la tecnologia perde di ossessività e torna a essere in posizione centrale perché mezzo, partecipe del processo. È Politica.



_________________

“La tecnologia non porta il precariato, è piuttosto il vuoto di immaginazione dei politici e di molti sindacalisti che lo determina. Bisogna avere il coraggio e la competenza per scrivere sul foglio bianco“. Marco Bentivogli

Francesco Bizzotto

martedì 1 maggio 2018

PER LA VERA FLEXSECURITY


LAVORO. GIRARE IN POSITIVO


Maurizio Del Conte, presidente dell’Agenzia nazionale per le Politiche attive – Anpal – dice la sua in un lungo articolo sul Corriere della sera del 27.04. Due giorni dopo, Di Maio (“capo politico M5S”) punta molto sul lavoro in una lettera allo stesso giornale. Entrambi dicono che le Politiche attive e i Centri per l’impiego – Cpi – sono conditio sine qua non per il Reddito di cittadinanza. Servono Cpi standardizzati, riconoscibili “su tutto il territorio e in grado di fornire ovunque gli stessi servizi”, per “prendere per mano i disoccupati e accompagnarli (… alla) riconquista del lavoro”. L’Anpal va liberata dalle burocrazie e finanziata con “adeguate risorse”. Così Del Conte. E Di Maio? “Le politiche attive del lavoro non funzionano” e i Cpi vanno riformati per “proteggere il lavoro”.

I messaggi sono chiari. Ed è vero: Reddito d’inclusione o di cittadinanza pari sono nella sostanza. È una priorità e non è questione di risorse, anche perché l’Europa finanzia i progetti seri. Certo, serve la riforma dei Cpi e uno standard minimo per tutte le regioni. Ma il servizio deve piegarsi sulla specifica realtà locale e sulla volontà politica e dell’opinione pubblica. E deve rendere conto. Non può essere servizio a gogò. E mi sembra miope non riferirsi e non chiedere una cornice europea: ballano molti miliardi.

È però troppo debole la logica che sta sotto questi ragionamenti e tutto il pensiero che da noi rumina Lavoro: una logica negativa, sacrificale, subordinata e di rimessa, perdente per definizione. Fa franare tutto. C’era anche nel Jobs act, ma Del Conte aveva parlato di Politiche attive di prevenzione delle crisi. La cartina al tornasole è l’art. 18. Di Maio ne propone la reintroduzione “come ‘misura ponte’, in attesa di una piena realizzazione del reddito di cittadinanza e della riforma dei Cpi”. Dopo, quindi, si toglierà? Del Conte parla invece di approccio pragmatico, centrato sui servizi. Senza art. 18.

Significa: l’azienda è (o sarà) libera di licenziarti, anche con un motivo inventato, ingiusto ma, tranquillo, io poi ti ricolloco. Così – ma è l’opinione di tutti gli economisti e lavoristi che hanno in mano il pallino – le cose sono (sembrano) pari: più flessibilità / licenziabilità e più servizi ex post (una volta morto). È qui l’errore.

La parità (e quel che serve davvero alle imprese) si fa girando il discorso in positivo: l’impresa ha bisogno di essere più libera nel prendere e lasciare (via quindi l’art. 18); lo Stato (che tutela tutti nel bisogno) aiuta il lavoratore a fare altrettanto; a essere più libero di scegliere e cambiare imprenditore. Se vuole crescere o è in difficoltà o non è contento (e il 68% non lo è), lo accoglie, lo orienta, lo forma e accompagna nel dialogo con imprese.

L’Istituzione ideale? Quella che anticipa crisi e difficoltà, produttive e relazionali. È la vera flexsecurity (“alla danese”) ed è il discorso che fa la Cfdt francese. Ora è più chiaro perché si fatica a venire a capo delle competenze che mancano alle imprese (per un 25 - 30% al nord): temono la concorrenza e la partecipazione del Lavoro. Ma solo queste scatenano impegno, inventiva, innovazione e produttività (quel che serve per stare al mondo). E governare significa fare condizioni di concorrenza. Quando Renzi dice che il Jobs act ha creato un milione di posti, non tocca il cuore. C’è molto di più nelle relazioni di lavoro: dignità, rispetto, orgoglio, gioia. Vedi Kahneman, Nobel 2002. È l’errore degli economisti (e lavoristi) classici: visioni razionali, formali, strumentali. E Di Maio cosa dice?

E qui da noi? La Milano politica sembra dimenticare la sua storia di sostegno, tutela e promozione del lavoro. In un decennio (costo 2 miliardi) è stata messa a sistema nell’Agenzia Metropolitana AFOL (Formazione, Orientamento e Lavoro), Cpi compresi. La confusione istituzionale non aiuta e la Regione Lombardia pure. Certo, Milano che si privasse della sua storia e lasciasse morire l’AFOL nell’indifferenza, per tornare a Cpi fragili e lontani, rimarrebbe negli annali.

Francesco Bizzotto