“LA SOCIETÀ DEL RISCHIO”
Il libro del sociologo tedesco Ulrich Beck (Carocci editore, Roma,
2000; traduzione di Walter Privitera e Carlo Sandrelli) sostiene che siamo di
fronte a “una pretesa di autorità del passato indebitamente prolungata oltre il
proprio tempo, alla quale sono sfuggiti di mano il presente e il futuro” (p.17);
“le forze produttive hanno perso la loro innocenza” (18) mentre “la
tradizionale politica dell’ambiente si concentra su ciò che accade alla fine
del processo produttivo, non al suo inizio, quando si decide” (93). Ora, in Usa
Mark Deasley invita alla Governance strategica "to take heigher risks".
“La società del
rischio” è il libro del sociologo tedesco Ulrich Beck (1944 – 2015) scritto a
metà degli anni ’80, “su una collina, all’aperto, sul lago di Starnberg” (pag. 21),
ospite della famiglia Ruhdorfer, grazie a “una borsa di ricerca della fondazione
Volkswagen” (22). Pubblicato nel 1986 e subito tradotto in inglese, è stato
molto letto in Germania e nei Paesi anglosassoni, per sensibilità al tema
(normativa la prima, pratica i secondi). Da noi ha avuto eco accademica. La mia
lettura ne osserva i risvolti utili alla “Gestione dei Rischi”. Nel 1986 lavoravo
in un’Assicurazione italiana come tecnico dei grandi Rischi, dopo una bella
esperienza a cavallo dei vent’anni in una compagnia Usa (AIU Italy; oggi AIG). Studiavo,
riflettevo sul mestiere e scrivevo sul Notiziario Assicurativo del mitico
Sergio Scotti.
Ho apprezzato questo testo, che è di
difficile lettura e che forse merita una traduzione più pensata. È un
contributo specialistico su un tema, il Rischio, che necessita di un largo
approccio interdisciplinare. Così, un po’ mi ha deluso. Mi è parso descrittivo
e attendista: dice molte cose, esplora sviluppi sociali laterali, ma non
affonda. Non rischia! È una ricerca che illumina la scena e lancia l’allarme; evidenzia
problemi. E ci lascia la responsabilità di completare il discorso. Utile in un
senso. Poco in un altro. Per esempio, Beck non distingue il Rischio dal Pericolo,
come invece fa Niklas Luhmann in “Sociologia
del rischio” del 1991 (Bruno Mondadori, 1996): Pericolo, dice Luhmann, è
potenziale di danno non ben valutato, non deciso o non condiviso; Rischio è il
contrario. Molte iniziative sono un Rischio per alcuni e un Pericolo per i più,
come sanno gli Agenti di Assicurazione,
veri esperti dei Rischi.
Beck sente irrompere l’incertezza e montare
il Rischio là dove c’era l’idea di una crescita illimitata. Vede l’accumulo di
rifiuti e inquinanti. Denuncia che il potenziale di danno è crescente, latente,
oscuro, dirompente: un’esplosione al rallentatore che occorre capire e fermare;
il Rischio diverrà dominante nella produzioni di beni. Con quali conseguenze? “Scompaiono
tutti gli steccati di classe” (47) per un “effetto boomerang” (48), perché i
danni ricadono anche sui responsabili. “Non si tratta più di ottenere qualcosa
di ‘buono’ ma di evitare il peggio; l’obiettivo che emerge è l’autolimitazione”
(65). E si assiste al trasferimento di potere decisionale dalle autorità alle
competenze, ai saperi, nei vari ambiti: “la logica del controllo collassa dal
suo interno” (335). La questione interessa anche le aziende: “Nello sforzo di
incrementare la produttività, i rischi sono sempre stati trascurati (…). La
produzione di rischi e il loro disconoscimento hanno quindi la loro prima causa
in un’unilateralità economica della razionalità tecnico-scientifica” (79). E
succede che “i tecnici sostengono che ‘non c’è alcun rischio’, mentre gli
assicuratori si rifiutano di stilare una polizza perché i rischi sono troppo
alti” (336). Qui Beck mostra lucidità e coraggio.
E oggi? Lascio Beck e osservo che la scienza
propone soluzioni per la riduzione dei Pericoli (se ne sa poco), ma il Rischio
di errore (strategico e di processo) continua ad alzarsi e dovremmo chiamarlo
Pericolo, perché scienza e decisioni d’impresa sono piuttosto isolate in vertici
(piramidi) di comando. Serve un modello a rete, articolato, trasparente, che validi
le indicazioni scientifiche e le decisioni. La libera impresa ci sta pensando e
provando. Come fare? Tenere uniti gli aspetti di Possibilità e di Rischio;
quelli positivi (i vantaggi) e quelli negativi (le conseguenze indesiderate); e
gestirli insieme, non separarli, come facciamo ora. Sono i due lati della
Potenza che ingenuamente chiamiamo Possibilità. Qui Beck non arriva.
Fermo sull’incertezza (quando non c’è una valutazione,
una misura), legge il Rischio solo in negativo, come eventualità di danno, mentre
ha una doppia valenza: è anche parte della Possibilità, del potenziale. Perché “tutto ciò che è in potenza è in potenza
gli opposti” (così Aristotele, ricordava Emanuele Severino). L’approccio
negativo impedisce a Beck di vedere appieno l’utilità del Rischio e il suo
aspetto clou: è questione di misura. Rischio è condizione e componente dell’idea
e poi dei processi da cui sorgono le opportunità. Ed è probabilità: che
l’azione intrapresa produca conseguenze indesiderate, danni. L’approccio
negativo tradisce Beck e lo induce a isolare la Possibilità e a mettere in
relazione il Rischio con l’opportunità, il vantaggio. Confronta la probabilità
negativa con un fatto, un evento positivo. Fa sembrare il rischio un accidente,
mentre lo è il danno. Dovrebbe mettere il Rischio in relazione (in parallelo) con
la Possibilità, perché insieme stanno a monte del processo, mentre
l’opportunità di benessere, il vantaggio, sta a valle, con i danni.
Dunque, Beck legge il rischio separatamente,
solo in negativo, come accidente; non ne focalizza la misura (aspetto clou) e
finisce per ridurlo a questione di distribuzione sociale dei danni. Si tratta
invece di intervenire a monte, e distribuire Possibilità / Rischi, cioè chance misurate
di iniziativa, di decisione responsabile; chance gestibili, con probabilità di
risultato valutabili. Se il Rischio rimane solo, separato, a lato dei processi (negativo:
un costo) e senza valutazione (misura), diventa una patologia sfuggente e ansiogena.
Così è.
Ma, Beck non manca nella denuncia: “Siamo
testimoni oculari (…) di una rottura all’interno della modernità” (14), che è un
progetto incompiuto; siamo di fronte a “una pretesa di autorità del passato
indebitamente prolungata oltre il proprio tempo, alla quale sono sfuggiti di
mano il presente e il futuro” (17). “Le forze produttive hanno perso la loro
innocenza” (18). “La logica di produzione della ricchezza domina sulla logica
di produzione dei rischi; nella società del rischio questo rapporto si inverte”
(18). “Emerge un nuovo chiaroscuro di opportunità e rischi: i contorni della
società del rischio” (20), mentre “la tradizionale politica dell’ambiente si
concentra su ciò che accade alla fine del processo produttivo, non al suo
inizio, quando si decide” (93). È mancato il governo dei Rischi: una Politica
inconsistente.
Beck prospetta “uno sviluppo complessivamente
controproducente” (93). E giunge a essere lapidario: “Le modalità di calcolo del
rischio, come sono state sinora definite dalla scienza e dalle istituzioni
legali, collassano” (29); “Quella del rischio non è una
società rivoluzionaria, ma qualcosa di più: è una società delle catastrofi. In essa lo stato di emergenza minaccia di diventare normalità” (103). Una vera Cassandra. E qui ha proprio ragione. La
tocchiamo.
Vede emergere crescenti opportunità
(vantaggi) e Rischi: questo parallelo è sbagliato, ho detto. Il Rischio va
studiato all’interno della “Possibilità”, perché ne è componente decisiva
trascurata. L’industrializzazione (tanto più il digitale) ha prodotto molti
benefici. A lungo le conseguenze indesiderate sono parse sostenibili e
facilmente rimediabili, a posteriori. Lo hanno pensato tutti i probabilisti
frequentisti, compreso Joseph Schumpeter. Non è così. Occorre intervenire a
monte: pensare la Possibilità in
modo nuovo, come un foglio a due facce,
di cui vedere e gestire insieme sia il lato in fiore (l’utilità, l’affare) sia
quello in ombra (le conseguenze indesiderate). Due probabilità intrecciate (soggettive,
relazionali, processuali) che si influenzano. Pensate insieme, possono andare
lontano in sicurezza attiva (Safety,
distingue Zygmunt Bauman): capacità di correre grandi Rischi in scioltezza. Polizze
di Assicurazione con questo approccio meritano subito un forte vantaggio fiscale.
Dunque, il nostro futuro può essere ricco di belle
iniziative ad alto Rischio: di Possibilità / Rischi diffusi, gestiti, sicuri
(safe) e assicurati. Ma Beck è pessimista: non vede come.
Pensavo e scrivevo negli anni ’80, forte della
mia pratica, dei miei trent’anni e dell’incontro con due grandissimi del
Rischio (il sociologo del lavoro Enzo
Spaltro – Sentimento del potere – e il matematico applicato Bruno de Finetti – Filosofia della
probabilità –): il Rischio è questione di iniziativa e misura; ha radici nelle
scelte e si nutre di operatività. Per misurarlo, e quindi poterlo assicurare, dicevo,
occorre coglierlo e seguirlo sia nelle decisioni sia nei processi produttivi, e
in tempi diversi (in tempo reale). Come faceva il Michele Balconi della Dolciaria Balconi Spa di Nerviano milanese,
che mi chiamò per assicurare il Rischio del nuovo capannone e vidi solo il
terreno (e il progetto). I grandi imprenditori!
E la sostenibilità è consapevolezza e
gestione della Possibilità / Rischio (dei vantaggi sperati e dei danni temuti);
una gestione duale, reciprocamente utile, fatta di attente valutazioni mirate all’incremento
della produttività e alla prevenzione dei danni. Anticiparli gli eventi! Agire
a monte, dal livello strategico. Solo così le Possibilità / Rischi sono
misurabili. Sostenibili, appunto. Il Rischio sfugge alla misurazione attendista
che guarda al passato, alle statistiche. Ingorda di affari, tampona in attesa degli
eventi. Inadeguata. Inaffidabile!
Beck dice che siamo di fronte a
un salto di qualità: l’uomo viene toccato duro dalle conseguenze indesiderate
del suo agire, dopo aver sterminato gli animali e lasciato un’impronta cafona quasi
ovunque. Queste conseguenze non sono più né occultabili, né (tra poco) assicurabili,
né (temo) rimediabili. Il liberalismo cambi passo. Penso che lo farà.
Serve un
pensiero che costituisca un chiaro indirizzo e un sicuro rimedio; che ci induca
a fare impresa e a lavorare (e vivere) bene; ad anticipare i danni, accettando
una limitazione nell’immediato dei vantaggi sulla carta possibili, senza
smettere di andare oltre. Anzi.
Dal mercato Usa
vengono segnali splendidi. Specialisti come Enterprise Risk Management
Initiative della North Caroline State University (direttore Mark Beasley - beasleym@ncsu.edu) mettono a fuoco la
crisi e il contributo, per una via d'uscita, delle attività di Risk Management.
Beasley parla (3 marzo 2021) di nuove "aspettative dei Consigli di
amministrazione per la governance dei rischi", oltre la Gestione; invita a
"creare una strategia a lungo termine" ("il pensiero del rischio
come parte dei processi di pianificazione strategica e di budget
dell'organizzazione"), per "garantire che l'Enterprise Risk
Management e i suoi sforzi per la sostenibilità aggiungano valore
strategico". Con quale obiettivo? "To
take heigher risks". Parole chiarissime. Il panorama nostrano ci vede,
invece, sulla difensiva; ha un profilo non adeguato ai grandi rischi della prospettiva.
Scrive Telmo Pievani sul Corriere delle sera del 15 aprile 2021: “L’evoluzione (…) è un’esplorazione di possibilità in cui il cammino non è già scritto all’inizio, ma si fa nell’andare. (…) La contingenza (che poi è la consapevolezza della nostra vulnerabilità) dovrebbe indurci alla prevenzione. (…) Le nostre scelte possono fare davvero la differenza. (…) Il futuro è aperto. A noi costruirlo”. Grazie a Ulrich Beck! 35 anni fa ha acceso la luce.
Luglio 2006,
rivisto nell’aprile 2021
Francesco Bizzotto
ricercatore e docente nel Master di Risk Management della Università Dante Alighieri di Reggio Calabria (responsabile scientifico è il professor Domenico Siclari).
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