“CATTIVERIA”
Sì. E le cause? Non sono d’accordo.
Non è solo
questione di economia e lavoro.
Come rimediare al ribollente malessere? Innovare in tre aree.
Osare più democrazia. Gestire ex ante problemi
e rischi.
Il Censis ci descrive incattiviti
e chiusi, pronti a comportamenti indicibili. È un orientamento profondo che ha
ragioni economiche, dice: la crisi, il Pil, i consumi piatti, il lavoro, gli
investimenti. Non sono d’accordo. Per capire, serve un altro sguardo. Oltre a
quello dei soldi, serve lo sguardo della vita (buon senso, misura,
soddisfazione, reciprocità e rispetto: “la civiltà delle maniere” di Pier
Massimo Forni). Ci sono, è vero, fasce di difficoltà economica, esclusione e
ingiustizia: basti dire che i salari italiani sono cresciuti di 400 euro
all’anno tra il 2000 e il 2017, mentre i francesi di 6.000 e i tedeschi di
5.000. Ma la povertà vera (don Colmegna), che riguarda molti e fa problema, è
un mix di sofismi televisivi, ambizioni smodate, sprechi e tagli insensati,
pericoli fuori controllo, dipendenti scontenti o precari, immigrati non
integrati, isolamenti diversi (imprenditori e professionisti, anziani e
separati).
Insomma, il cuore del problema non
è nella povertà materiale. Lo è per un 10 -15% e può essere molto ridotto con
iniziative di accompagnamento (c’è un 20% di Domanda di lavoro delle imprese da
mettere a frutto). La “cattiveria” diffusa (che segue il “rancore” del 2017) si
riassorbe sul terreno delle relazioni sociali sostanziali, percettive, visive.
C’è un’etica del vivere insieme che sta morendo e che si nutre di buoni esempi
e di rispetto (guardarsi attorno, voltarsi, dubitare e tenere conto
dell’altro). Ha poco a che fare con la crescita. Anzi. Muore di crescita
quantitativa, inquinamento, rumore, rifiuti e indifferenza (ognuno per sé, come
il tutto esaurito della stagione sciistica). È questione squisitamente umana e
politica. Come uscirne? Quali i rimedi? Indico tre risorse chiave su cui
innovare: 1° la rappresentanza politica, 2° il liberalismo economico, 3° la
logica del rischiare.
1° La Politica è inconsistente
nel rappresentare interessi e sensibilità, e nel definire prospettive.
Crisi della democrazia? Direi, piuttosto, del modo in cui i partiti praticano
l’indirizzo e l’iniziativa di governo. Sono messi – tranne, in parte, il Pd –
come l’aria che si respira a Milano: fuori legge. La Costituzione prevede (art.
49) che concorrano “con metodo democratico”: bilancio e organizzazione interna,
contendibilità, responsabilità amministrativa. Niente. Mettono a rischio il
Paese e non ne rispondono. Concentrati sugli equilibri interni, definiscono
l’azione di governo sul filo degli umori, del consenso. Vaghi sono i tentativi
organizzati di ascoltare e capire come muove (in positivo) la realtà. Il
rapporto con gli elettori è di bassa cucina: umorale, per proclami, richieste,
pretese anche volgari; quasi mai per competenze, idee, progetti. I partiti
fanno nomine pesanti; vanno messi a norma e devono ascoltare, decidere,
rischiare il consenso e render conto.
2° Il liberalismo economico
deve aprire al lavoro, alle professioni. Bussano da anni alla porta, mentre
animano, innovano e curano fitte reti di relazioni; sono una bella parte della
nostra splendida economia. Il limite del sistema attuale è l’isolamento degli
imprenditori. Non ha più senso. Il tema è la Democrazia economica. Come lo svolgiamo,
alla luce dell’art. 46 della Costituzione? Alla tedesca, con la co-gestione
sindacale (mostratasi fragile nella crisi Volkswagen) o con una partecipazione
libera e regolata alla vita d’impresa, che premi l’armonia relazionale e quindi
la creatività? Sono per la seconda, come sembra dire l’Europa, e auspico
Istituzioni pubblico – private di territorio (Agenzie del lavoro), partecipate
da imprese e sindacati, e assicurate secondo norme europee (qualcuno
interessato al mercato aperto e a non avere “sinistri”, cioè disoccupati).
Istituzioni che organizzino il dialogo tra Domanda e Offerta di lavoro, portino
via dall’azienda il conflitto di relazione, i lacci e lacciuoli (Guido Carli) e
l’insoddisfazione dei collaboratori (è al 70%!). Giochino quindi a mettere il
collaboratore giusto con l’imprenditore giusto, ad anticipare i problemi, a non
aspettare le crisi e i licenziamenti. Significa scatenare la concorrenza sul
Capitale umano e ripartire con il libero mercato (una prateria). Diventeremmo
globalmente imbattibili. Qui, bisogna amare il concorrere.
Francesco Bizzotto
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