mercoledì 28 giugno 2017

LAVORO EUROPEO

Politiche per il lavoro, in Italia si è giocato il primo tempo (il licenziamento è più facile). Le politiche attive sono il secondo tempo.         


Marianne Thyssen (belga, 61 anni), commissaria europea per l’occupazione
ha detto: le riforme del lavoro in Italia vanno “nella giusta direzione, ma sono ancora incomplete e carenti dal punto di vista dell’attuazione, per esempio nel campo delle politiche attive per il lavoro”. In Italia si è giocato il primo tempo (il licenziamento è più facile). Le politiche attive sono il secondo tempo: accompagnano giovani e donne a trovare un posto e a cambiarlo, se è precario o a rischio; se non c’è sintonia, rispetto, reciprocità. C’è dell’altro, ma questo è il minimo sindacale. Altrimenti siamo sull’uscio della Costituzione. Previste dal Jobs act con l’ANPAL, Agenzia nazionale per le politiche attive (Dlgs 150/15), sono in mano alle regioni. Vi abbiamo investito meno di tutti (1/10 della Germania). Con la crisi, noi abbiamo ridotto, gli altri (anche la Spagna) hanno aumentato le risorse. L’approccio è frammentato e di attesa. I Centri per l’impiego sono screditati, appesantiti, isolati. E chi, come Milano, si avventura oltre (vedi l’AFOL Metropolitana), viene ignorato da tutte le parti.
È così che si perdono le elezioni (anche quelle politiche): per debolezze locali su grandi temi. Perché è chiaro che le politiche attive del lavoro sono un’assoluta priorità, si fanno su misura del territorio e offrono un’immagine plastica di chi governa e dei partiti (dei loro progetti). Se il Centrosinistra non vince in Lombardia (e se oggi perde Sesto S. Giovanni) è perché ha sbagliato tutto sul lavoro. Ora, non si faccia altro male. Riprenda a ragionare su come e perché il lavoro cambia. E cosa serve. Lo deve alla sua storia.
Jeremy Corbyn conquista e libera il sentiment dei giovani britannici quando chiede una politica per i molti, non per pochi, e li invita a essere leoni. Ad avere coraggio. Forse non servono progetti centrali (nazionali, regionali) definiti, ma orientamenti, visioni, e capacità di accendere fuochi, di attivare i più (i giovani, le donne, i competenti). Serve un Centrosinistra così, localmente organizzato, forte, e ben diretto. E coordinato a livello nazionale ed europeo. Per i più, per far esprimere potenziali, per accendere fuochi (come i commercianti del Medioevo e poi i borghesi delle nostre belle città). E il Centrodestra? Conserva valori. Un ruolo importante. Solo la relazione e il conflitto (di merito, per favore; quello personale è un’inciviltà, una vergogna) tra schieramenti, tra parti, fa compiere percorsi utili, positivi. E i 5Stelle? Ben venga il terzo o quarto incomodo: complica e favorisce crisi e cambiamenti. Ora, le diverse anime del Centrosinistra discutono di questo? Non mi pare. La butto lì: è di Centrosinistra essere per il libero mercato di rete (di relazioni) e per l’analogo concorrere (correre insieme a parità di chance, per obiettivi condivisi e con contributi e risultati personali diversi, molto diversi)? È di Centrosinistra la disuguaglianza di risultati (che non lascia alcuno in difficoltà) e la parità di chance (un mix di possibilità, occasioni, impegno, rischi da correre, diceva Dahrendorf)? Mi par di vedere la faccia di Bersani che ghigna: dillo a Renzi. Diciamolo: chi non è per il libero mercato e la concorrenza (governati dall’interesse generale), non è per la democrazia. E la bella Sinistra milanese, che ha fatto vincere Sala a Milano, gira gira non lo è. Parliamone.
Torno al lavoro. Guardiamo all’Europa e non siamo supponenti. Lì c’è quel che serve, a partire dalle risorse per fare le Agenzie del lavoro (con progetti regionali seri). L’AFOL di Milano può essere un test utile al Paese. Valorizziamola. Quali sono i nodi. Mi diceva il sindaco di Sesto Giorgio Oldrini nel 2008: oggi senza le aziende non aiuti i lavoratori. Partiamo da qui. Renzi ha messo in campo una riforma delle Camere di commercio (Dlgs 219/16) che offre alle imprese la chance di prender parte alle politiche attive.Una grande occasione. Per dimostrare a Bersani che si sbaglia: il problema non è Renzi.
Francesco Bizzotto

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