Libero lavoro in
libera impresa
Renzi ha forse perso il Referendum sui giovani e sul lavoro. E ora si teme
che le regioni trattino il tema come sempre: poco niente di Politiche attive,
le passive a gogò e buona notte. Ho letto che sul lavoro 17 regioni su 20 sono
al palo. Spero non 17. Certo, dove più c’è bisogno, più le istituzioni sono
deboli. Come ripartire?
Servono dati veri, regionali, un chiaro e forte indirizzo politico (meglio se europeo) e una aperta attribuzione di responsabilità alle regioni: predispongano progetti localmente condivisi; le altre regioni li sosterranno; l’Europa è pronta a finanziarli. Si può fare a meno di centralizzare. I dati diranno che il Sud è una riserva aurea di lavoro e che in Lombardia la disoccupazione è sotto il 7%. Possiamo scendere al 5%. Milano è sugli scudi e ha già una bella Agenzia Metropolitana (AFOL). Facciamo qui un test per il Paese che aiuti il Sud.
L’indirizzo. Gentiloni ha detto che le priorità sono i giovani, il lavoro e il sud. L’Agenzia nazionale del lavoro ANPAL, cardine del Jobs act, ha un ruolo forte e può dare il là. Già l’attuazione del D.lgs. 150/15 (non riducibile all’assegno di ricollocazione che sostituisce la mobilità) direbbe tutto sulle Politiche attive. Specie se aggiunta alla riforma delle Camere di commercio, con cui Renzi ha chiamato le imprese a contribuire al loro decollo.
Non è un caso se la Germania fa 12 volte più di noi sulle Politiche attive, con 100.000 addetti focalizzati sui risultati, contro i nostri 8.000 focalizzati su dati amministrativi. Non prendiamo in giro i giovani. Le Politiche attive sono l’unico rimedio alla precarietà e al lavoro grigio (voucher) e nero. O qualcuno pensa che si possa proibire per legge (o per la sola via conflittuale) il lavoro precario, la disuguaglianza, l’ingiustizia?
C’è un bel modo per aumentare la competitività delle nostre imprese e insieme difendere a dovere il lavoro (dipendente e autonomo che sia): liberare le relazioni, favorire dimissioni e licenziamenti facili, la mobilità e la flessibilità, il cambiamento. Solo se diverranno libere e armoniose, queste relazioni esprimeranno il grandissimo potenziale di cura, creatività e innovazione che hanno. E solo queste relazioni servono alla nostra crescita. Che non può che essere qualitativa (e in netta riduzione di quantità, ingombro, inquinamento).
Il problema del costo del lavoro si risolve (in positivo) affrontando quello del ruolo del lavoro (assunzione di responsabilità). Il lavoro deve fare un passo avanti e l’imprenditore deve accettare che divenga un fattore concorrenziale aggiuntivo, di mercato.
Alla licenziabilità facile siamo molto vicini, dopo che la Cassazione ha dichiarato “legittimo licenziare per fare profitti” (Corriere della sera, 30.12 scorso, p. 25). Ma non si licenzia per aumentare il profitto. Si licenzia perché la relazione non gira, non c’è sintonia.
Le dimissioni facili restano un problema che può essere superato con Politiche attive di mobilità, formazione e collocazione (al Nord fino al fisiologico 3%; a Milano anche meno, dato che il Nord Milano era al 3% nel 2008). Politiche attive smart, cioè anticipatrici di crisi produttive, organizzative o relazionali. E per essere smart – ricordo che anticipare crisi e danni costa la metà – devono essere figlie di accordi locali.
Qual è il punto? I punti sono due.
1° la libertà o mobilità del lavoro non si fa da sola. Un giornalista credibile come Dario Di Vico ha detto sul Corriere del 29.12 scorso: la disuguaglianza abita gli under 35; il mercato e le imprese chiedono una quota di flessibilità / licenziabilità che non possiamo negare; i lavoratori (i giovani, dipendenti o autonomi) devono farsi imprenditori di se stessi, e vanno “accompagnati” con Politiche attive. Dico a Di Vico: sì; servono forti Istituzioni ad hoc. Quella nazionale – ANPAL – c’è ma è ferma, colpita duro dal Referendum; quella milanese – AFOL – è pronta ma isolata; politicamente debole. Cosa dice Milano?
2° la concorrenza pure non si fa da sola. Di loro, le imprese tendono al monopolio. Solo la politica, l’interesse generale, può fare l’interesse vero delle imprese: favorire le migliori e accompagnare alla chiusura le peggiori, condannate per non essere state scelte dai
consumatori e – novità di questo millennio – dai collaboratori. L’imprenditore fa un salto di qualità: diventa leader riconosciuto di un gruppo. Oppure chiude. Così si presenta oggi la “distruzione creatrice”. Quasi non esiste più il capo solitario. La piramide (sopra il comando e sotto l’esecuzione, la manodopera) funziona sempre meno. Occorre andare verso la Rete, fare Gruppo. Oltre il vecchio liberalismo, direbbe Niklas Luhmann.
Ho detto: accompagnare alla chiusura le imprese che non vengono scelte dai consumatori e/o dai lavoratori. Sì, perché nessuno deve essere lasciato solo, in difficoltà. Men che meno un imprenditore, un “lavoratore che rischia” (Valter Veltroni). Così è chiara l’urgenza di ripensare al welfare in termini universalistici. Siamo ultimi in Europa.
Con le risorse che abbiamo possiamo pensare a un welfare (altro che un reddito) di cittadinanza. Per liberare dal vincolo della necessità il lavoro e il fare impresa. Entrambi. E farne quel che sono: un’arte, desiderata, scelta, vissuta con passione. Direi: un bel rischio.
Il futuro del fare impresa esalta dunque la concorrenza (correre insieme – misurarsi – per obiettivi condivisi), la libertà reciproca e il lavoro di gruppo. E le relative Istituzioni attivatrici.
E le risorse per farlo, per sostenere tutti e non lasciare nessuno in difficoltà?
Sabino Cassese dice bene sul Corriere del 4 cm: il referendum ha affossato il sogno di riformare la PA partendo dall’alto. Conviene “dedicarsi ai rami bassi”. A Milano può significare incentivare l’aggregazione tra Municipi (134, uno ogni tre chilometri in linea d’aria) e tra servizi. Per risparmiare? Sì. Almeno un miliardo l’anno, rilanciando il ruolo della PA. E soprattutto per tre ragioni politiche positive e ineludibili: vedere meglio i problemi (penso al trasporto pubblico), iniziare a lavorare in gruppo, fare rete, e mandare urbi et orbi il messaggio che Milano fa sul serio, spende bene i suoi soldi. Ne verrebbero credibilità e disponibilità d’investimento sorprendenti. E allora: sveglia Milano!
“Poiché la società civile, lasciata a se stessa, ingenera rapporti di potere radicalmente disuguali, che solo il potere dello stato può sfidare (…) lo stato non può mai essere, come appare nella teoria liberale, una mera struttura per la società civile. E’ altresì strumento di lotta, usato per dare una forma particolare alla vita comune.” (Michael Walzer, Il filo della politica, ed. Diabasis, ’02, p. 91)
“Dobbiamo liberare il mercato dal vizio congenito di sopprimere le proprie condizioni di buon funzionamento”. Massimo Cacciari (2006).
Servono dati veri, regionali, un chiaro e forte indirizzo politico (meglio se europeo) e una aperta attribuzione di responsabilità alle regioni: predispongano progetti localmente condivisi; le altre regioni li sosterranno; l’Europa è pronta a finanziarli. Si può fare a meno di centralizzare. I dati diranno che il Sud è una riserva aurea di lavoro e che in Lombardia la disoccupazione è sotto il 7%. Possiamo scendere al 5%. Milano è sugli scudi e ha già una bella Agenzia Metropolitana (AFOL). Facciamo qui un test per il Paese che aiuti il Sud.
L’indirizzo. Gentiloni ha detto che le priorità sono i giovani, il lavoro e il sud. L’Agenzia nazionale del lavoro ANPAL, cardine del Jobs act, ha un ruolo forte e può dare il là. Già l’attuazione del D.lgs. 150/15 (non riducibile all’assegno di ricollocazione che sostituisce la mobilità) direbbe tutto sulle Politiche attive. Specie se aggiunta alla riforma delle Camere di commercio, con cui Renzi ha chiamato le imprese a contribuire al loro decollo.
Non è un caso se la Germania fa 12 volte più di noi sulle Politiche attive, con 100.000 addetti focalizzati sui risultati, contro i nostri 8.000 focalizzati su dati amministrativi. Non prendiamo in giro i giovani. Le Politiche attive sono l’unico rimedio alla precarietà e al lavoro grigio (voucher) e nero. O qualcuno pensa che si possa proibire per legge (o per la sola via conflittuale) il lavoro precario, la disuguaglianza, l’ingiustizia?
C’è un bel modo per aumentare la competitività delle nostre imprese e insieme difendere a dovere il lavoro (dipendente e autonomo che sia): liberare le relazioni, favorire dimissioni e licenziamenti facili, la mobilità e la flessibilità, il cambiamento. Solo se diverranno libere e armoniose, queste relazioni esprimeranno il grandissimo potenziale di cura, creatività e innovazione che hanno. E solo queste relazioni servono alla nostra crescita. Che non può che essere qualitativa (e in netta riduzione di quantità, ingombro, inquinamento).
Il problema del costo del lavoro si risolve (in positivo) affrontando quello del ruolo del lavoro (assunzione di responsabilità). Il lavoro deve fare un passo avanti e l’imprenditore deve accettare che divenga un fattore concorrenziale aggiuntivo, di mercato.
Alla licenziabilità facile siamo molto vicini, dopo che la Cassazione ha dichiarato “legittimo licenziare per fare profitti” (Corriere della sera, 30.12 scorso, p. 25). Ma non si licenzia per aumentare il profitto. Si licenzia perché la relazione non gira, non c’è sintonia.
Le dimissioni facili restano un problema che può essere superato con Politiche attive di mobilità, formazione e collocazione (al Nord fino al fisiologico 3%; a Milano anche meno, dato che il Nord Milano era al 3% nel 2008). Politiche attive smart, cioè anticipatrici di crisi produttive, organizzative o relazionali. E per essere smart – ricordo che anticipare crisi e danni costa la metà – devono essere figlie di accordi locali.
Qual è il punto? I punti sono due.
1° la libertà o mobilità del lavoro non si fa da sola. Un giornalista credibile come Dario Di Vico ha detto sul Corriere del 29.12 scorso: la disuguaglianza abita gli under 35; il mercato e le imprese chiedono una quota di flessibilità / licenziabilità che non possiamo negare; i lavoratori (i giovani, dipendenti o autonomi) devono farsi imprenditori di se stessi, e vanno “accompagnati” con Politiche attive. Dico a Di Vico: sì; servono forti Istituzioni ad hoc. Quella nazionale – ANPAL – c’è ma è ferma, colpita duro dal Referendum; quella milanese – AFOL – è pronta ma isolata; politicamente debole. Cosa dice Milano?
2° la concorrenza pure non si fa da sola. Di loro, le imprese tendono al monopolio. Solo la politica, l’interesse generale, può fare l’interesse vero delle imprese: favorire le migliori e accompagnare alla chiusura le peggiori, condannate per non essere state scelte dai
consumatori e – novità di questo millennio – dai collaboratori. L’imprenditore fa un salto di qualità: diventa leader riconosciuto di un gruppo. Oppure chiude. Così si presenta oggi la “distruzione creatrice”. Quasi non esiste più il capo solitario. La piramide (sopra il comando e sotto l’esecuzione, la manodopera) funziona sempre meno. Occorre andare verso la Rete, fare Gruppo. Oltre il vecchio liberalismo, direbbe Niklas Luhmann.
Ho detto: accompagnare alla chiusura le imprese che non vengono scelte dai consumatori e/o dai lavoratori. Sì, perché nessuno deve essere lasciato solo, in difficoltà. Men che meno un imprenditore, un “lavoratore che rischia” (Valter Veltroni). Così è chiara l’urgenza di ripensare al welfare in termini universalistici. Siamo ultimi in Europa.
Con le risorse che abbiamo possiamo pensare a un welfare (altro che un reddito) di cittadinanza. Per liberare dal vincolo della necessità il lavoro e il fare impresa. Entrambi. E farne quel che sono: un’arte, desiderata, scelta, vissuta con passione. Direi: un bel rischio.
Il futuro del fare impresa esalta dunque la concorrenza (correre insieme – misurarsi – per obiettivi condivisi), la libertà reciproca e il lavoro di gruppo. E le relative Istituzioni attivatrici.
E le risorse per farlo, per sostenere tutti e non lasciare nessuno in difficoltà?
Sabino Cassese dice bene sul Corriere del 4 cm: il referendum ha affossato il sogno di riformare la PA partendo dall’alto. Conviene “dedicarsi ai rami bassi”. A Milano può significare incentivare l’aggregazione tra Municipi (134, uno ogni tre chilometri in linea d’aria) e tra servizi. Per risparmiare? Sì. Almeno un miliardo l’anno, rilanciando il ruolo della PA. E soprattutto per tre ragioni politiche positive e ineludibili: vedere meglio i problemi (penso al trasporto pubblico), iniziare a lavorare in gruppo, fare rete, e mandare urbi et orbi il messaggio che Milano fa sul serio, spende bene i suoi soldi. Ne verrebbero credibilità e disponibilità d’investimento sorprendenti. E allora: sveglia Milano!
“Poiché la società civile, lasciata a se stessa, ingenera rapporti di potere radicalmente disuguali, che solo il potere dello stato può sfidare (…) lo stato non può mai essere, come appare nella teoria liberale, una mera struttura per la società civile. E’ altresì strumento di lotta, usato per dare una forma particolare alla vita comune.” (Michael Walzer, Il filo della politica, ed. Diabasis, ’02, p. 91)
“Dobbiamo liberare il mercato dal vizio congenito di sopprimere le proprie condizioni di buon funzionamento”. Massimo Cacciari (2006).
Francesco BIZZOTTO
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