LA MIA
GENERAZIONE HA VINTO
Negli anni 70
– un momento esaltante – abbiamo bussato in azienda, chiesto e offerto una
chance di coinvolgimento del Capitale umano. È oggi il secondo Rischio più
temuto dalle imprese, dopo quello digitale. C’è un’ampia fetta di società
impegnata nel sociale da due eventi straordinari: il Concilio Vaticano II e il lungo
68 italiano. Può aiutare la vecchia Sinistra (e i populisti) ad abbandonare
l’approccio alla vita sociale centralista, mortifero e strumentale al loro potere.
L’impresa? Ce la farà.
Ho 72 anni.
Ne avevo 25 quando creai la rappresentanza sindacale della Filda Cgil nella
mia azienda, a Milano. Non senza dubbi e tentennamenti, perché amavo il mio
lavoro di ispettore e assuntore di rischi industriali: il top professionale. Ma,
soffiava un vento di cambiamento e giustizia a cui non potevi resistere. Ero nella
Divisione per il nord di una compagnia romana divenuta forte con la RC Auto: a disposizione
delle Agenzie, da Bassano a Torino. Mi trovavo bene. Avevamo uffici
meravigliosi, nella storica casa di Cesare Cantù, nel cuore di Milano. Cullavo
idee americane su come lavorare meglio.
Mi ero
formato in una bella e innovativa compagnia Usa (AIU Italy; oggi
AIG) che avevo lasciato per migliorare. Ero doppiamente gasato: il lavoro e la giustizia
sociale, inoculatami dal Movimento Studentesco della Statale, dove ero iscritto
a Filosofia. Seguivo i corsi serali voluti dal Movimento: ricordo con beata
meraviglia Mario Dal Pra insegnare Storia della filosofia; fascino e fatica,
con il diploma di Geometra. Il mio cuore era un guazzabuglio di sentimenti
eroici, esaltati dall’amore (di Claudia). Sono stato fortunato.
I
sentimenti dei vent’anni mi sono tornati tutti in mente tempo fa. In
un ufficio pubblico mi sento rivolgere la parola: “Lei è Bizzotto”. “Sono io.
Ci conosciamo?” rispondo. “Negli anni 70 ero alla RAS [ora Allianz] e lei
faceva il sindacalista”. Mi metto sulla difensiva: “Anni belli e complicati.
Lei come li ricorda?” “Avete fatto cose serie. Anch’io ero vicino; attivista.
Ho un bel ricordo. Abbiamo ottenuto molto ed è cambiato il clima in azienda”.
Parliamo.
Ringrazio
dei complimenti (che estendo ai molti) e confesso i miei dubbi: intemperanze,
picchetti, spazzolate; avevamo poco rispetto per le gerarchie e i tran tran del
lavoro. Mi conferma, con il noi e con il voi: “Eravamo belli, puliti,
coraggiosi. Le imprese vi temevano. Volavate alto. Sì, a volte troppo. Solidali
con tutti, volevamo cambiare il mondo. Certo, i vostri discorsi mordevano poco,
ma più per miopia delle compagnie. Stavano in difesa”.
Io avevo maturato
una mezza idea in stile Giorgio Gaber: “La mia generazione ha perso”. La rivedo.
Nossignori, la mia generazione ha vinto! Ha fatto la sua parte, ha bussato, ha chiesto
e offerto chance di coinvolgimento del Capitale umano. L’impresa ha chiuso. Ed
è adesso (50 anni dopo) che ci pensa e vuole aprire, coinvolgere. Per motivare,
impegnare, convincere, trattenere. È il secondo rischio globale (il Capitale
umano) più temuto dalle imprese, dopo il digitale. Ma, dov’è il Sindacato?
Piano. Vediamo prima il clima e la storia.
A fine
anni 60 la crescita economica e culturale era straordinaria, grazie
(ma lo si sottovalutava) agli aiuti internazionali e a un assetto istituzionale
ben incardinato e aperto. Chiamava a concorrere in tutti i campi con idee e
impegno. Eravamo scatenati. Veniva però in superficie una dominante classica:
il ribellismo, l’estremismo, lo scontro fisico facile. E montava la reazione antidemocratica
a questo clima: la continua violenza eversiva (gli attentati, da piazza Fontana
del 1969 al treno Napoli Milano del 1984), la Mafia, le Brigate Rosse. Ma la
società tutta reagì. Il Sindacato non si lasciò prendere dall’avventurismo.
Anzi: il lavoro e l’impresa furono argini di tenuta delle Istituzioni
democratiche. Al prezzo di un certo irrigidimento di tutti su posizioni di
sicurezza. Noi, impazienti, faticavamo a capirlo.
Nelle
compagnie di assicurazione (fine anni 60) si lavorava con saldi criteri
tecnici e con modalità organizzative vecchio stile: formali, gerarchiche,
paternalistiche. Il sistema era ingessato ma funzionava. Carico di storia, si
dimostrò subito fragile. C’erano le Direzioni delle compagnie con forti amministrazioni
e i primi calcolatori a schede. E c’era la parte commerciale separata (com’è), appaltata
ad Agenti locali o alimentata da Broker incaricati dalle aziende. Infine
c’erano reti di produzione dipendenti dalle compagnie (Ina, Generali, Ras,
Unipol), che facevano produzione di nicchia. Coinvolte nelle rivendicazioni, miravano
però a sedersi: chiedevano un posto al caldo, ma avevano idee, proposte.
Il margine
tecnico era buono (il rapporto tra sinistri pagati e premi incassati) e c’era un
coordinamento indiscusso tra le compagnie (di gestione e tecnico, poi messo
sotto accusa dall’Antitrust). Iniziavano a prevalere, sul modo di assumere i
rischi, la finanza, i volumi e gli sconti: fare polizze. L’apoteosi fu la RC
Auto obbligatoria (legge 990 – 1969): un’alluvione di soldi. Protagonisti furono
gli Agenti in appalto. Si organizzarono; fecero un gran bel lavoro.
E il Sindacato?
Nasceva per una spinta esterna. Milano era in ebollizione in ogni
ambito. Uno slogan dei primi anni 70: “Come mai, come mai, sempre … agli
operai? Ora i tempi son cambiati: ... anche agli impiegati”. C’erano motivi di disagio
e contrasto ma esplosero i Sindacati confederali: la Filda Cgil di Vincenzo
Calzolari e Pino Pietranera, la Fila Cisl di Aldo Tagliaferri (ex partigiano un
po’ anticomunista), Giorgio Ceriani (vicino a Pierre Carniti) e Riccardo Billi
(dell’MLS), la Uilass Uil di Maurizio Del Frate e Santi Drago. Calava il
Sindacato autonomo Fna (l’anima corporativa), controllato da comunisti d’esperienza,
iscritti e funzionali al Pci (Giuseppe Pagani ed Ermanno Sacchi). Strano? Per
nulla, dirò.
I Sindacati
confederali agivano in sintonia e i leader erano intellettuali
attentissimi e aperti al mondo. Svettavano il comunista senza tessera Calzolari
(mancato da qualche anno) e il cattolico innovatore Ceriani. Conservo
sentimenti di stima e affetto. La partecipazione rendeva i leader trasparenti
ed eroici. In una certa misura, anche sradicati, poco istituzionali e destinati
a solitudine e sofferenza. Ne hanno avuta, in abbondanza. Dare senso a quegli
anni, lenire la sofferenza è tra i miei obiettivi.
Avevamo i
soliti problemi con i dirigenti nazionali, ma il dibattito era serrato e vinceva
la comunanza. Della Filda Cgil, la mia casa, ricordo i romani Walter Barni (mitico
segretario: le sue relazioni non mancavano di accennare alla situazione globale),
Giancarlo Baldriga (che il Covid s’è portato via in questi giorni a 81 anni;
era paziente e mediatore) e Mario Caltabiano (dell’Agenzia Ina Assitalia di
Roma; politico sottile). Avevo poi una simpatia per il napoletano Francesco Cilento
e il torinese Paolo Mancinelli. Persone tutte di spessore e belle visioni. Di
fatto, scartate, dimenticate, a questo importante livello sociale.
Montava il movimento delle donne e anche
nel Sindacato (in azienda e nelle strutture provinciali e nazionali) la loro
presenza era visibilissima. Senza separatezze o pretese, contestavano anche
noi, oltre alle aziende; senza sgomitare, con sguardo lungo e grande attenzione
alle relazioni, agli aspetti e alle difficoltà personali. Noi avevamo per loro sentimenti
di amicizia e rispetto: coraggiose sorelle d’avventura! Tra le leader della
piazza milanese ricordo Ivana Maronese, compagna di Vincenzo Calzolari, e
Chicca Baroffio, che non mi perdonò la decisione, a fine anni 70, di aderire al
Psi di Craxi e Martelli, e lasciare il Sindacato. A sinistra era sempre guerra,
come sappiamo.
A Milano c’era
la maggior parte delle Direzioni e dei Broker. Vi si faceva,
forse, un terzo del lavoro. Il mercato era qui. A Roma c’erano le direzioni del
Gruppo pubblico (Ina e Assitalia) e poche altre, tra cui la mia:
Intercontinentale. E c’era, a Roma, più visione che a Milano, non solo per gli
stretti rapporti con i centri di Governo, molto presenti e attivi. C’era
passione a Roma, e capacità di ascolto. Roma – Milano, e tutto girava. Napoli
ci metteva un tocco di poesia, di umanità, e Torino di serietà e concretezza.
Sono i miei ricordi.
Nelle
Agenzie in appalto, con marchio della compagnia, il lavoro era al femminile e sia
considerato (perché ad ampio spettro di competenze) sia vessato: precario ante
litteram; instabile e poco pagato, quando non umiliato. Da segretario regionale
mi sono occupato di loro, in Lombardia, per metà del mio tempo: da Como a Lecco
a Pavia, a Bergamo e Brescia, Cremona e Mantova: ho conosciuto donne
straordinarie, affidabili, spesso di carattere e di grande abilità relazionale.
Giro la Lombardia e ancora le incontro.
Nelle Direzioni,
erano in sofferenza gli archivi, i pool delle dattilografe (battevano a macchina i
documenti, le polizze) e i gruppi di produzione diretta. Ma, funzionava una
tradizione di crescita e mobilità interna. Aveva senso. Io stesso ho iniziato a
18 anni in archivio e dopo due anni sono passato alle linee di assunzione dei
rischi. Non un regalo. Studiavo e lo chiesi con forza, insieme ai colleghi
archivisti degli uffici Sinistri; siamo andati in gruppo dal dirigente del
personale. Per le donne c’era meno spazio, ma non chiusura. E per i produttori?
Ampie possibilità di avere in appalto un’Agenzia ed essere autonomi.
Il clima era
vario: più professionale e responsabilizzante nelle
compagnie straniere, più burocratico e paternalista in quelle italiane. Il
primo, ovvio, favoriva l’impegno. C’era un’aura di responsabilità, rispetto e
considerazione per le competenze tecnico assuntive (dei rischi) e liquidative
(dei sinistri). Ricordo il dirigente di AIU Italy Franco Baldini che difende in
prima battuta, senza fare una piega, la mia decisione assuntiva (sbagliata) e
trova una soluzione. E poi le calde amicizie tra colleghi, i fraterni rapporti
con i commessi, le feste a Natale, le gite aziendali sulla neve, la
comprensione degli anziani. Un giovane era catturato.
Spinti dunque da un vento esterno di contestazione,
un po’ alla volta prendemmo la parola. Rivendicammo. Per noi, per sanare le ingiustizie
delle organizzazioni del lavoro, per i lavoratori delle Agenzie in appalto (i
Broker no, erano una élite a sé), per il mondo intero. Potevamo limitarci?
Ottenemmo una certa pulizia nelle piccole cose, buoni contratti e “investimenti
in case popolari”, per tutti: 300 miliardi (di lire). Da esserne orgogliosi.
Insomma, abbiamo bussato alla porta delle
compagnie. Hanno aperto uno spiraglio. Al nostro confuso (mica tanto) contestare
e rivendicare, le compagnie si sono difese. Non hanno giocato all’attacco per smontare
quel po’ di retorica e riprendere la fiducia dei collaboratori. Nobili, ricche
e longeve, non hanno saputo collocare la rappresentanza sindacale, dare risposte
innovative. Ma, i tempi erano critici e il limite era sia delle imprese sia
della politica. Anzi, i nostri dirigenti – abituati a sentire i rischi – erano tra
i più attenti e curiosi. Prendevano sberle (morali), masticavano amaro e cercavano
di capire.
Ricordo i
vertici dell’Ania e di molte compagnie (assai spesso persone serie, in
gamba). Ad esempio, la bella figura di Pier Carlo Romagnoli della Reale Mutua. Fu
presidente dell’Ania dal 1978 al 1984: un duro dialogante. Appena insediato, in
una trattativa, volle conoscere gli attivisti sindacali milanesi. Eravamo una
cinquantina, schierati ai lati di una sala quadrata dell’Ania di piazza S.
Babila. Ci strinse la mano a uno a uno guardandoci diritto negli occhi. Ricordo
uno sguardo fermo e incredulo, che non si capacita: “Cosa volete mai? Chi vi
manda?”. Ogni cultura (e generazione) ha valori e limiti. Rispettiamoci.
Non starò a dire delle nostre rivendicazioni e delle
lotte per i contratti. Cose classiche: direttivi di organizzazione per
decidere, attivi di piazza (riempivamo i saloni della Camera del lavoro ed
erano feste), assemblee nelle aziende, scioperi, picchetti e volantini. Entusiasmo,
serietà, impegno. Estesi a tutta la Lombardia (Ispettorati di liquidazione dei sinistri
e Agenzie in appalto): macinavamo problemi e chilometri. Ricordo che in un
giorno, con la macchina di Pietranera, portammo i volantini dello sciopero in
tutte le nove (contata Lecco ed esclusa Sondrio) province di allora.
Volavamo alto: l’Assicurazione
obbligatoria RC Auto; il sistema delle Agenzie in appalto; le politiche degli
investimenti. Fino allo slogan esagerato (del 1974) di Fabio Mussi delle
Generali di Milano (di Lotta Continua, morto 50enne, non domo): “Dal Portogallo
ci viene una lezione; nazionalizziamo l’Assicurazione”. Così aveva fatto la
rivoluzione dei Garofani. Prese e lacerò, come una bomba. Ce ne volle per
recuperare. Io continuavo a fare al meglio molte cose. Anche il mio lavoro.
Avevo un ottimo rapporto con i miei Agenti.
Ero (con
un piccolo gruppo di amici assicuratori) in una organizzazione politica comunista
extra parlamentare (Movimento Lavoratori per il Socialismo - MLS) nata dal
Movimento Studentesco della Università Statale di Milano e impegnata (grazie a
politici di spessore: Sandro Cerquetti e Sergio Vicario) a lasciare il radicalismo
del 68 e ad apprezzare il pluralismo politico, il ruolo propositivo autonomo dei
Sindacati, il metodo democratico. Pensavamo: può crescere l’utilità delle
Assicurazioni private (la protezione nei rischi) per le attività economiche e
per la società; e si possono organizzare meglio le cose.
Miravamo al dialogo, ad alleanze con i
tecnici, i quadri intermedi, gli Agenti in appalto (le loro esigenze e idee),
confrontando le esperienze europee e oltre. Ricordo che a Como, dove seguivo in
specie le Agenzie, feci un accordo (nero su bianco) con il locale Sindacato
degli Agenti (SNA) presieduto da Carla Barin: ci impegnavamo al dialogo sui
problemi e invitavamo le compagnie al confronto sulle grandi questioni del
mercato.
Il fronte associativo (Ania) non faceva una
piega. Mollava soldi e sfumava sul resto. Non lasciava mettere becco;
temeva il contesto. Noi eravamo debolucci e le cose erano complicate. Nei Sindacati
erano forti quelli che pensavano si dovesse portare a casa, non metterla in
politica aziendale. Lo pensavano in tanti, non solo i comunisti di Avanguardia
Operaia e di Lotta Continua, che mi attaccarono per l’accordo fatto a Como: “Non
possiamo allearci con gli Agenti che sfruttano il lavoro!”. Comunque, a pesare (e
lavorare) erano il Pci e la Cgil. E l’MLS era una piccola forza milanese un po’
mal vista in Cgil.
Eravamo tutti di sinistra. Ma, la
cultura sindacale tentennava sull’autonomia del sociale ed era subordinata sia
alle imprese sia ai partiti: chiedeva, rivendicava ma balbettava sul cosa fare
e come (creare valore, farsi apprezzare). Riservava l’iniziativa ampia ai
partiti, alla politica, al dopo. Solo la Cisl aveva un approccio davvero
autonomo ma – allora come ora – timido, poco motivato, poco risoluto. Mi
permetto di dirlo, perché di questa cultura ha scritto così Bruno Trentin, segretario
generale della Cgil dal 1988 al 1994: la Sinistra (i comunisti e un po’ anche i
socialisti) considerava “il conflitto sociale come […]
strumento di promozione e sostegno dell’azione del partito politico. In una
parola, come trampolino per l’accesso al potere“ (Bruno Trentin, La città
del lavoro, Ed. Feltrinelli, 1997, p. 51).
Quello che
accadeva nella società, nelle
imprese, interessava i partiti di Sinistra per il consenso e poco più. E un po’
disturbava anche. Questo aspetto dovrebbe essere ben chiarito e corretto. Penso
in particolare che il miglior contributo possa venire dalla Cisl e da quell’ampia
fetta di società impegnata dai venti prima del Concilio e poi del 68, il lungo
68 italiano. L’approccio strumentale alla vita sociale (famiglia, impresa,
volontariato) è una zeppa nella storia della vecchia Sinistra: ha fondato il
suo ferreo centralismo, forse un tempo giustificato e oggi in crisi nera, ancor
più nella sua versione populista. La rende tuttora inabile a governare. Contro il
suo impasto di idee sbagliate (che non si fidano della società; non sono democratiche)
Trentin lottò e soffrì fino alla morte.
Ma, di questo
e della prospettiva positiva
che mi sembra aprirsi con la richiesta e offerta di “coinvolgimento” che da 50
anni si alza dal lavoro, parlerò un’altra volta. Parlerò della Rete (del
contributo creativo dei molti), della sua bellezza e necessità. È il tesoro
nascosto della cultura occidentale che sorge. A tramontare è la piramide, il
comando, l’antica violenza. Qui mi fermo a questa storia e realtà. Mi propongo,
in primis, di aiutare le compagnie, le imprese, a uscire dalla crisi
conclamata, di cui sono ben consapevoli. Crisi che è di ogni ambito. L’impresa
è solo davanti: è tenuta a cambiare, se no chiude. Dunque, nell’impresa c’è
speranza.
Francesco
Bizzotto