“In attesa perenne nel nome di
Machiavelli”
Fare
gioco d’attesa e mirare al fine, da predatori, incuranti dei mezzi
“In
attesa perenne nel nome di Machiavelli” è il titolo di un articolo di
Ernesto Galli della Loggia – Corriere della sera, 15 cm – in cui critica duro
il libro di Asor Rosa “Machiavelli e l’Italia”. Si seguita, dice, nell’attesa
che un “principe nuovo”, dotato di “armi proprie”, venga a
risolvere i nostri problemi (istituzionali, economici e sociali). Sì, la
politica da noi è attesa poco responsabile: subito dopo avere preso posizione
(un posto) ci si dispone ad aspettare le mosse di chi sta in alto. Perché sono
venuti meno gli orizzonti ideologici ed è difficile dire circa il che fare.
L’organizzazione dei partiti poi non aiuta: è ancora quella vecchia, atta a
trasmettere dall’alto al basso; strumento del principe; incostituzionale (c’è
poco “metodo democratico”). Insomma, tutto, dalla cultura
all’organizzazione, mira al centro, in alto, per incensare o criticare; in
attesa dell’errore, della (facile) caduta. La logica della Piramide (del
comando), in abbandono nel privato, domina il pubblico. Incredibile ritardo.
Quella del principe
nuovo è cultura della separazione che isola. È infantile: il padre è ancora
lì, dominante e inefficiente. Non funziona e produce malattie: onnipotenza in
alto e passività, dipendenza, in basso. L’impresa la sta esplorando. E la Politica?
Centralismo o Populismo a sinistra e Sovranismo (o che altro?) a destra. La
complessità qui è esaltante. Non esplorata, induce basso profilo,
professionismo d’accatto e disprezzo. Eppure ci sono idee positive, mature e
praticabili. Due esempi:
1° I territori –
data la paralisi del governo centrale – possono attivarsi, prendere
l’iniziativa e mettere in campo progetti condivisi e risorse (“armi proprie”),
superando la contrapposizione pubblico / privato (dice Elinor Ostrom, studiosa
del governo dei beni comuni, prima donna Nobel per l’economia nel 2009). Se lo
fanno bene, hanno subito dalla loro la forza irresistibile dell’opinione
pubblica. Si tratta di praticare la sussidiarietà, diceva a proposito delle
relazioni industriali, l’ex direttore di Confindustria Innocenzo Cipolletta in
una bella intervista di Dario Di Vico sul Corriere della sera: “Rispondere
alla disintermediazione responsabilizzandosi ulteriormente e risolvendo
problemi”. Vale in generale: per il lavoro come per infrastrutture,
investimenti, sicurezza. Ed è la sola cosa che va fatta per la rinascita del
Sud. Alzarsi e attivarsi. È a portata di mano.
2° Convertirsi dal
FINE ai MEZZI. Machiavelli (1469 – 1527) è anche alfiere del principio per cui “tutti
i profeti armati vinsero, e li disarmati ruinarono”. Dal che la regola
tutt’ora imperante: il fine giustifica i mezzi. E la chiamiamo civiltà. La
radice dell’errore sta negli antichi filosofi greci (quanta timidezza dei
nostri nel criticarli!): pensavano gli individui e le cose come sostanze “nettamente
e risolutamente separate le une dalle altre” (Francesco Remotti) e non
anche come relazioni. Dal che l’errore di precipitarci al fine e trascurare il
percorso, la via, il processo e le sue regole (Enri Bergson). E il rischio –
aggiungo –, e le conseguenze dell’agire (ne verrà bene o disastri?). Georg
Simmel (1858 – 1918) l’aveva detto: l’uomo vero è l’intero (soggetto
individuale e relazioni); è un errore separare; e l’individuo è
insondabile (creativo in ogni attimo). A mezzi buoni e giusti, a belle
relazioni – sembra dire Simmel – seguiranno fini giusti e sorprendenti. Non
possiamo anticiparli, predirli. Convertirsi allora significa rimettersi per
via, riportare al centro il processo, le regole e i rischi. Significa fare la
verità, come diceva Jeshua Ben Joseph. È prossimo all’invito di Innocenzo
Cipolletta (attivarsi nei territori) e di Ernesto Galli della Loggia (non stare
in perenne attesa del “principe nuovo” che non verrà).
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“Non riuscendo a rendere forte il giusto, si è fatto giusto il
forte”. Blaise Pascal, citato da Giulio Giorello (Corriere della sera,
11.02.2019)
Francesco Bizzotto