SERVE LA MOBILITA’
Il “Decreto dignità” sbaglia sul lavoro, e la confusione è generale.
Per battere la precarietà (che
è frutto di flessibilità unilaterale, mal fatta) ci vuole la Mobilità, non la
stabilità; ci vogliono Politiche attive per tutti, anche per i rider, i
lavoratori a tempo determinato o parziale o somministrato, e per quel 68% da
scandalo che non è soddisfatto del posto, che vorrebbe crescere, rischiare,
cambiare lavoro o imprenditore e non ha modo di farlo. È l’impostazione europea
della Flexsecurity, annacquata dal nostro diffuso guardar corto.
La Mobilità apre
l’orizzonte, tende ad anticipare le crisi aziendali e quel 5% di disarmonia
relazionale fisiologica di cui imprenditori e lavoratori vogliono liberarsi.
Rende accettabili questi rischi e i momenti difficili. Ingiusta è la precarietà
stabile; una galera per entrambe le parti. Pensare di ottenerla solo per sé è
l’errore strategico di Confindustria. Negarla è l’errore della vecchia
sinistra. Al 90% delle imprese servono collaboratori attivi e propositivi, non
manodopera timorosa e spenta; lavoratori impegnati, con visioni positive e
dunque soddisfatti e creativi / innovativi su tutta la filiera delle cose e
delle relazioni d’impresa, non potenziali haker in agguato o distratti davanti
a uno schermo (immagine nient’affatto di fantasia, se è vero che il 50% del
Cyber risk si forma dentro l’impresa).
Con logica novecentesca –
contrapposizione e rapporti di forza – chi guida le imprese ha approfittato
della flessibilità (necessaria) per regolare i conti, o meglio – al solito –
per ridurre la concorrenza. Perché, occorrerà riconoscerlo, il futuro del
lavoro, anzi, il suo presente, è contribuire in modo responsabile alla vita
d’impresa, essere co-imprenditore, collaboratore attivo. In buona parte lo è
già. Un punto di forza. Questo salto di qualità del concorrere è la via
d’uscita, promette molto bene e va riconosciuto, istituzionalizzato. È nella
pratica, nelle cose, non nelle corde della nostra arretrata cultura di
rappresentanza.
Chi punta tutto sulla
stabilità del lavoro non capisce l’impresa che serve (complessa, armonica, con
processi delicati e relazioni lunghe), e chi aspetta il licenziamento per aiutare
il lavoratore è fuori dal mondo perché deprime il capitale umano e santifica la
scelta di Confindustria: puntare su paura, precarietà e riduzione del costo del
lavoro, anziché sulla partecipazione responsabile, soddisfatta, e sul sostegno
del mercato interno.
La soluzione? Ripartire
dalle Agenzie del lavoro (pubbliche, aperte a tutte le parti, articolate in
sportelli di quartiere e paese); investire e ridiscutere le prassi
assistenziali, puntare su Formazione (le aziende dicano cosa gli serve), Orientamento
e Politiche attive. E non solo per i disoccupati, gli ultimi, gli sfigati. Per
tutti. Mirare a promuovere il lavoro. È l’unico modo per proteggerlo e insieme
far crescere libere e competitive le imprese. Così i lavoretti e il precariato
acquistano senso, sono utili, temporanei, accettabili. Ascoltiamo l’Europa. Gli
incentivi alle imprese da soli servono a poco. E l’assistenza (Reddito di
cittadinanza o inclusione) riserviamola ai poveri e agli esclusi, impegnati a
cercare lavoro senza riuscirci e ciò nonostante socialmente attivi (nel
volontariato, in attività sociali) perché dalla società ricevono il giusto per
vivere con dignità. Succede già, per vie opache.
Così il cerchio si può quasi chiudere, se non
fosse per il Sud in cui si concentrerebbe il 70% del Reddito di cittadinanza o
inclusione, dice Maurizio Ferrera (Corriere della sera, 28 giugno scorso). Qui
“la sfida non è certo quella di inserire le persone, ma quella di creare nuovi
posti”. Poiché “nessuno è pagato per stare sul divano”, “prima di sussidiare
chi cerca lavoro, bisogna stimolarne la domanda”, cioè far crescere imprese e
servizi con un potenziale nei settori in cui c’è spazio (turismo, cultura,
salute). È una vera sfida. Come? Con “investimenti infrastrutturali e sociali,
incentivi fiscali, una sostanziosa riduzione del costo del lavoro.” Discorso
serio e duro. Le disponibilità ci sono (l’Assicuratore investitore
istituzionale è un esempio). Si devono fare entrambi i percorsi. Con un
progetto Paese che può convincere i mercati finanziari e può partire da Milano
Città Metropolitana. Per tutti.
Francesco Bizzotto