venerdì 6 luglio 2018

LAVORO


 SERVE LA MOBILITA’


Il “Decreto dignità” sbaglia sul lavoro, e la confusione è generale. 


Per battere la precarietà (che è frutto di flessibilità unilaterale, mal fatta) ci vuole la Mobilità, non la stabilità; ci vogliono Politiche attive per tutti, anche per i rider, i lavoratori a tempo determinato o parziale o somministrato, e per quel 68% da scandalo che non è soddisfatto del posto, che vorrebbe crescere, rischiare, cambiare lavoro o imprenditore e non ha modo di farlo. È l’impostazione europea della Flexsecurity, annacquata dal nostro diffuso guardar corto.

La Mobilità apre l’orizzonte, tende ad anticipare le crisi aziendali e quel 5% di disarmonia relazionale fisiologica di cui imprenditori e lavoratori vogliono liberarsi. Rende accettabili questi rischi e i momenti difficili. Ingiusta è la precarietà stabile; una galera per entrambe le parti. Pensare di ottenerla solo per sé è l’errore strategico di Confindustria. Negarla è l’errore della vecchia sinistra. Al 90% delle imprese servono collaboratori attivi e propositivi, non manodopera timorosa e spenta; lavoratori impegnati, con visioni positive e dunque soddisfatti e creativi / innovativi su tutta la filiera delle cose e delle relazioni d’impresa, non potenziali haker in agguato o distratti davanti a uno schermo (immagine nient’affatto di fantasia, se è vero che il 50% del Cyber risk si forma dentro l’impresa).

Con logica novecentesca – contrapposizione e rapporti di forza – chi guida le imprese ha approfittato della flessibilità (necessaria) per regolare i conti, o meglio – al solito – per ridurre la concorrenza. Perché, occorrerà riconoscerlo, il futuro del lavoro, anzi, il suo presente, è contribuire in modo responsabile alla vita d’impresa, essere co-imprenditore, collaboratore attivo. In buona parte lo è già. Un punto di forza. Questo salto di qualità del concorrere è la via d’uscita, promette molto bene e va riconosciuto, istituzionalizzato. È nella pratica, nelle cose, non nelle corde della nostra arretrata cultura di rappresentanza.

Chi punta tutto sulla stabilità del lavoro non capisce l’impresa che serve (complessa, armonica, con processi delicati e relazioni lunghe), e chi aspetta il licenziamento per aiutare il lavoratore è fuori dal mondo perché deprime il capitale umano e santifica la scelta di Confindustria: puntare su paura, precarietà e riduzione del costo del lavoro, anziché sulla partecipazione responsabile, soddisfatta, e sul sostegno del mercato interno.

La soluzione? Ripartire dalle Agenzie del lavoro (pubbliche, aperte a tutte le parti, articolate in sportelli di quartiere e paese); investire e ridiscutere le prassi assistenziali, puntare su Formazione (le aziende dicano cosa gli serve), Orientamento e Politiche attive. E non solo per i disoccupati, gli ultimi, gli sfigati. Per tutti. Mirare a promuovere il lavoro. È l’unico modo per proteggerlo e insieme far crescere libere e competitive le imprese. Così i lavoretti e il precariato acquistano senso, sono utili, temporanei, accettabili. Ascoltiamo l’Europa. Gli incentivi alle imprese da soli servono a poco. E l’assistenza (Reddito di cittadinanza o inclusione) riserviamola ai poveri e agli esclusi, impegnati a cercare lavoro senza riuscirci e ciò nonostante socialmente attivi (nel volontariato, in attività sociali) perché dalla società ricevono il giusto per vivere con dignità. Succede già, per vie opache.

Così il cerchio si può quasi chiudere, se non fosse per il Sud in cui si concentrerebbe il 70% del Reddito di cittadinanza o inclusione, dice Maurizio Ferrera (Corriere della sera, 28 giugno scorso). Qui “la sfida non è certo quella di inserire le persone, ma quella di creare nuovi posti”. Poiché “nessuno è pagato per stare sul divano”, “prima di sussidiare chi cerca lavoro, bisogna stimolarne la domanda”, cioè far crescere imprese e servizi con un potenziale nei settori in cui c’è spazio (turismo, cultura, salute). È una vera sfida. Come? Con “investimenti infrastrutturali e sociali, incentivi fiscali, una sostanziosa riduzione del costo del lavoro.” Discorso serio e duro. Le disponibilità ci sono (l’Assicuratore investitore istituzionale è un esempio). Si devono fare entrambi i percorsi. Con un progetto Paese che può convincere i mercati finanziari e può partire da Milano Città Metropolitana. Per tutti.

Francesco Bizzotto





giovedì 5 luglio 2018

PRECARIATO E LAVORO GIOVANILE


UNA ASIMMETRIA

Perché la risposta non è la stabilità imposta ma la libera mobilità

Dobbiamo essere chiari con i Giovani sul Lavoro. Ne va dell’economia, che non è tutto ma è fondamentale, con l’ambiente, la cultura, la giustizia. Le imprese vogliono avere collaboratori, non dipendenti. Lavoratori impegnati, attivi, sorridenti, relazionali, creativi, per competere nel mondo come stanno facendo: con la qualità, le regole rispettate, la rete affidabile di competenze, la bellezza, il buon gusto, la sorpresa. Per questo vogliono poter licenziare facile, liberarsi di quel 5% di personale che è seduto, collabora formalmente, non gli interessa, pensa ad altro e tira sera.

Ci stanno arrivando, con il tempo determinato, il part-time, l’esternare, il trasferire, i lavoretti, ma corrono un alto rischio di trovare solo la precarietà, il deserto. I giovani soffrono di questa condizione di flessibilità unilaterale, che si addice alla merce. È una giungla: l’impresa ti mette fuori quando vuole (anche per ragioni ignobili, sappiamo) e tu sei solo e confuso. Non è giusto. L’impresa ha ragione, ma serve reciprocità. Lo dico anche per il figlio di papà, che muore al futuro e al merito quando diventa raccomandato, cioè castrato. E Dio sa quanti lo sono. Nel pubblico e nel privato. Pochi gli Alberto Angela.

L’impresa di cui parlo – che gira attorno ai 15 dipendenti e che potrebbe andare oltre e dare lavoro ma teme di sbagliare e complicarsi la vita – è la struttura portante, il nostro futuro. Dobbiamo ascoltarla e aiutarla a fare bene e a non farsi male. Servono la Politica e le Istituzioni, per fare i suoi interessi nonostante lei (le sue chiusure). L’impresa funziona e vive se c’è un sano ambiente concorrenziale. L’apertura dei mercati ci ha aiutato soprattutto perché ha favorito (ad esempio nel cibo) la “concorrenza”. Scatena le capacità. È una realtà sociale a doppia uscita: per dare e per prendere; è una forma di collaborazione e conflitto (di merito, senza l’aggressività e la violenza che vediamo quando viene meno). È da studiare meglio, da perfezionare ed esaltare. È come lavorare in gruppo: 1 + 1 + 1 fa 5; a volte 10. È così. La “relazione” (che è sempre un concorrere: offre chance, rende responsabili e mette a rischio) scatena le intelligenze, esalta i potenziali.

È la “relazione” il cuore della questione, non i fatti, i risultati, le sostanze, le monadi, gli individui. Servono nuovi filosofi per andare oltre Aristotele (pare) e il vecchiume di destra e di sinistra che da 2500 anni ci inchioda nella separatezza. Se no, la concorrenza muore; muore il principio relazionale, di reciprocità, di giustizia. Siamo troppo ancorati alle pulsioni, all’immediatezza (Silvia Montefoschi), e quindi dominati dalla tecnica (Umberto Galimberti) e isolati, poco lungimiranti (papa Francesco). Tant’è. Il destino avverso (la tendenza al calo della concorrenza, a tutti i livelli, anche in Politica) si può ribaltare ponendo al centro e regolando le relazioni. Con le conseguenze del caso.

E il lavoro è parte delle “relazioni d’impresa”. Il “collaboratore” attivo e sorridente cos’è se non un vero e proprio concorrente che contribuisce e vuole affermarsi, essere apprezzato, riconosciuto, guadagnarci? E, come l’impresa si vuole liberare del lavativo, così è giusto che il bravo lavoratore abbia chance, possa provare a liberarsi dell’imprenditore che non è all’altezza, non lo valorizza o non ha bisogno di lui. Vanno aiutati entrambi. È questione d’impostazione, di base. In questo Dialogo, c’è subito un 20% di occupazione in più. Spiegarlo a sinistra.

È difficile da fare? No. La Germania investe in Politiche attive del Lavoro 12 volte più di noi. È un caso? In realtà 20 volte di più, perché i nostri Centri per l’impiego sono fermi alla logica del collocamento e gravati da fardelli amministrativi, mentre serve l’accompagnamento, come faceva don Bosco con i Giovani nell’800 (a proposito: cosa fanno i Salesiani?).

Le risorse ci sono. Si parte dall’Orientare, si fa Formazione di base, specifica e continua, e poi Mobilità (parola chiave, dialogica, temuta dai troppi fifoni che non amano la Concorrenza). Possiamo fare meglio della Germania, che forse s’è incartata con la “cogestione” (non ha impedito lo scandalo Volkswagen). Possiamo fare perno sulla piccola impresa e sulla mobilità aperta, libera. Serve l’Istituzione ad hoc. A Milano, a Monza e in molta parte del Centro Nord ci sono Agenzie del lavoro pronte o quasi allo scopo. Devono essere partecipate, potenziate e assicurate (qualcuno che guadagna di più se io lavoro, e quindi che si fa in quattro): case aperte del Concorrere diffuso che pone al centro il capitale umano. Serve a mettere in chiaro il disastro assistenziale e a dare senso ai lavoretti, a lasciar crescere la gig economy.

Perché la risposta al precariato non è la stabilità imposta ma la libera Mobilità. Alzati in volo, Milano!

Francesco Bizzotto