“La chiave per sbloccare i giovani è l’attivazione”
Un discorso non frammentato sul lavoro dovrebbero farlo i Partiti. Rischiare apertamente il consenso con gruppi di ricerca che sviluppino visioni, progetti, iniziative (di governo o opposizione). Invece, si danno troppo alle tattiche e il pallino del lavoro è in mani incerte, o di sindacalisti sulla difensiva o di giuristi ed economisti.
Così, ci accapigliamo su proposte parziali. Come il referendum di Landini. E per il Lavoro, c’è sempre il primo tempo del dare e mai il secondo tempo del ricevere. Cosa ha fatto il Jobs act di Renzi? Ha creato un clima favorevole alla libertà di scelta dei collaboratori d’impresa (sono crollate le cause di lavoro) senza riuscire a far decollare le Politiche attive per il diritto del lavoro alla reciprocità: a scegliere l’imprenditore.
In Francia, a Macron che voleva fare come Renzi, il sindacato CFDT rispose: a una maggiore libertà per l’impresa corrisponda una maggior libertà anche per il lavoro. E la partita si chiuse subito, purtroppo. Perché il problema del fare impresa oggi è sia di reciproca libertà sia di più stretta collaborazione.
L’impresa del futuro? Una salda rete di persone libere e appassionate. Per avere cura di prodotti, processi e servizi (delle offerte e relazioni d’impresa). Per innovare, creare valore ed essere apprezzati nel mondo. E quindi avere margini per investire, direbbe Giovannino Agnelli, l’erede più giusto, morto troppo presto, nel 1997 a 33 anni.
In mancanza della voce dei Partiti, ascoltiamo volentieri giornalisti e studiosi. Ad esempio Mauro Magatti, sociologo del lavoro, professore alla Cattolica di Milano. In un articolo sul Corriere dell’8 giugno riflette su giovani e lavoro. “Un quadro preoccupante”, dice. E riporta dati di ricerca dell’Istituto Toniolo: “solo il 50% dei giovani italiani guarda al futuro con speranza”. Gli altri “faticano a scorgere delle opportunità”. “La speranza si riapre quando i giovani sono attivi: chi lavora, fa volontariato o ricopre un ruolo socialmente riconosciuto sviluppa uno sguardo fiducioso verso di sé e il futuro”.
“In un contesto di benessere diffuso”, “percorsi scolatici scollegati dal lavoro”, “possibilità infinite di connessione” e “un flusso soverchiante di stimoli, dove tutto appare possibile, ma nulla davvero concreto”, i giovani si ritrovano pressati tra “richieste altamente performative” e “l’incertezza di un mondo indecifrabile”. “In questa bolla digitale, prosperano paure infondate, aspettative irrealistiche o, al contrario, la tentazione di rinchiudersi”. Stage, tirocini, formazione? “Dovrebbero garantire il confronto ruvido e impegnativo col reale”, invece sono “percorsi gratuiti e senza sbocchi, dove i ragazzi hanno la sensazioni di essere solo usati”.
“Come suggerisce la ricerca del Toniolo – sottolinea Magatti – la chiave per sbloccare i giovani è dunque l’attivazione. È urgente aiutare i ragazzi a uscire dalla bolla, a sperimentarsi in contesti dove possano misurarsi con i propri limiti e le proprie capacità”. “La cattività dentro il mondo parallelo del benessere e dei social non è una soluzione”.
E conclude: servono “percorsi di accompagnamento formativo, incentivi all’assunzione lavorativa, sostegni all’autonomia abitativa”; “condizioni per esperienze concrete”. “Un sistema che permetta ai giovani di sentirsi protagonisti, non spettatori della propria vita”.
Significativo è anche il sondaggio “Progetto Role Model” dell’ente di formazione Elis, un consorzio di 130 gruppi e imprese che mira a orientare i giovani alle competenze più richieste. Ne fa un bel articolo Cinzia Arena su Avvenire del 29 giugno. Il sondaggio (tra giovanissimi, 14 – 18 anni) dice che il 32% mira a “guadagnare il massimo possibile”, il 31% a un equilibrio tra vita e lavoro, e il 24% pensa alle “opportunità di fare carriera”. Seguono “essere utile” (8%) e “prestigio sociale” (6%).
È vero che sondaggi su 20 – 30enni evidenziano valori e motivazioni più alti. Qui cosa emerge? Lo riassume Cinzia Arena: “Dedicare al lavoro il meno spazio possibile con il massimo del risultato”. Questa immagine allude al dato costante del basso numero dei soddisfatti in azienda: un terzo. E i due terzi? Sono presentisti? Guardano l’orologio? Giova ricordare il Luigi Einaudi delle Prediche inutili: chi dice della verità di un’azione economica? Chi ne usufruisce e ne è parte. Chiederglielo: quanto ti soddisfa?
È, infine, interessante leggere (Linkiesta, 16 giugno) cosa ha detto al Financial Times Brian Niccol, nuovo ad di Starbucks (bar - caffè): “Abbiamo esagerato con la tecnologia, che ha sostituito l’umanità del servizio (… che) invece è il nostro punto di forza”. Così Starbucks “ha fatto marcia indietro”: più baristi (non meno tecnologia) “per un contatto con i clienti”. Qui c’è il tema delle relazioni d’impresa (interne ed esterne).
Fatto questo resoconto, vado al sodo, per dure conseguenze. Tre tabù da abbattere:
1° tabù: le Politiche attive di orientamento e accompagnamento al lavoro. Non esistono. Se ne blatera, salvo qualche iniziativa ed enclave. Una menzogna. Abbiamo fatto giusta assistenza nelle crisi dell’impresa fordista (e per i portatori di handicap: qui molto bene). E abbiamo investito 1/10 della Germania, con meno efficienza. Siamo all’anno zero. A Milano, l’Agenzia AFOL Metropolitana (Formazione, Orientamento, Lavoro) ha messo a sistema e centralizzato una storia bellissima di formazione e sostegno al lavoro – a cui molti specialisti hanno dedicato la vita professionale – ed è costata 2 miliardi in un decennio. I risultati? Poco nulla.
È stata affossata dalla pochezza della Politica, dall’incertezza sindacale e da un calcolo sbagliato di Assolombarda (tenere fuori, separato, il lavoro). È stata messa in un angolo, distante da imprese, territori, associazioni, PA. Ovvio, con risorse scarse mentre, sottolineo, sono abbondanti: europee, di investitori istituzionali, delle famiglie. Navighiamo da pezzenti in un mare di soldi. Gli Assicuratori, ad esempio. Hanno 12 mila miliardi di riserve in Europa (mille in Italia) e sono impegnati dall’UE – Solvency II – a investire in infrastrutture, anche sociali. Ne hanno interesse, per formare i trend dei rischi. Sono pronti a finanziare progetti seri. Quel che manca, appunto.
Ora, c’è un disegno di legge del governo Meloni, su iniziativa Cisl, che non è il massimo (ma “putost che nient l’é mei putost”) su cui il Pd si è astenuto (come il Pci sullo Statuto dei lavoratori nel 1970), di cui non si parla e a cui sono contrari Cgil e Confindustria. Penso che un’attivazione del lavoro, una sua partecipazione impegnata alla vita d’impresa porterebbe bei risultati, a partire da un cambiamento di clima. Al centro dei discorsi non ci sarebbe il calcio ma l’azienda, le sue imprese, i suoi obiettivi e risultati, l’impegno e il contributo di ciascun ruolo. E il riconoscimento dei diversi contributi. Più coscienza e comprensione.
Se siamo al “lavoro povero” (bassi salari, precarietà, nero), è per questa ragione sbagliata: che il lavoro tenda a non servire e che i lavoratori si sentano estranei ed espulsi dall’impresa; e si sentano un costo, un peso, una merce. Non è così, in particolare nelle piccole imprese (il 95% con meno di 10 dipendenti), ma l’aria che tira è questa: il tuo ruolo non ha prospettiva; ti viene riconosciuto poco perché vali poco. E perché non attiviamo il lavoro? Perché c’è il 2° tabù.
2° tabù: la concorrenza. Nessuno la vuole: dalle imprese ai sindacati, dalla destra alla sinistra (in specie). Se appena si può si evita: ci si accorda, si fa consorteria e i problemi non si risolvono; si fa debito. Si confonde l’uguaglianza delle chance con il sano correre insieme (e dare contributi diversi) per obiettivi condivisi. Si amano i diritti e poco i doveri, le opportunità e non i rischi, che contengono le opportunità (non le cogli se non rischi).
Ora, l’Agenzia del lavoro ha un ruolo chiave nell’indirizzo dato dalla Unione europea: quello di orientare, formare e accompagnare il lavoro. È uno strumento per dargli un ruolo attivo, responsabile, e aumentare il tasso di concorrenza nel fare impresa. E rendere imbattibili le imprese sui mercati. L’attivazione del lavoro (dipendente e autonomo) è la prima carta da giocare per fare rete d’impresa, per innovare, fare produttività. Si è invece usata l’Agenzia per assistere gli espulsi e risolvere crisi aziendali. In futuro per formare immigrati. Va bene ma…
“Osare più Democrazia” nei luoghi di lavoro, diceva Pierre Carniti (Cisl) nel 1976. E Bruno Trentin (Cgil) concludeva la sua sofferta riflessione (anni ’90) sciogliendo il nodo che ha lacerato le forze di sinistra in tutto il secolo, ovunque. Quale nodo? Se viene prima la Sicurezza (le forze produttive, le conquiste, il Potere) o la Libertà (le relazioni sociali, le regole, le riforme, la Democrazia). La risposta di Trentin: “La Libertà viene prima”.
A Milano AFOL Metropolitana (meglio se Lombarda) può far decollare la concorrenza di Rete e liberare: orientare, formare e trovare la quadra con le risorse umane. Badare ai risultati e fare come don Bosco a Torino nel 1850: favorire l’incontro tra offerta di lavoro e domanda dell’impresa, pronti a cambiare se la relazione non gira. Il collaboratore o l’imprenditore non ti va? Si parla, si cambia, si rischia. È il 3° tabù.
3° tabù: il Rischio. Il concorrere responsabile ci porta a riscopre il Rischio (dentro cui stanno le Opportunità). Se il giovane non si sente e non accetta di essere a Rischio, non s’impegna e muore dentro. La valutazione e la gestione dei Rischi è la frontiera di fronte a cui impresa e lavoro si trovano. Smettiamo di separarli. Valutare e gestire Rischi insieme (nell’impresa profit e non) per rilanciare il punto di forza europeo: creare, innovare e concorrere con passione, bellezza, creatività. Significa leggere in positivo il rischiare, il fare impresa.
Concorrere con l’arma decisiva del Rischio equivale a lavorare alla misura, sia individuale, matematica, digitale (Métron, dicevano i Greci) sia relazionale, sociale, quantistica (la Giusta misura – Métrion). L’Intelligenza artificiale (ChatGPT) è d’accordo. Glielo abbiamo chiesto; l’abbiamo inchiodata; ha detto la verità.
Francesco Bizzotto