mercoledì 16 dicembre 2020

NOTE A MARGINE DEL 54° RAPPORTO

 CENSIS “LITALIA È UNA RUOTA QUADRATA”

Il 4 dicembre è stato presentato il 54°rapporto del Censis sulla società italiana. Sono 36 pagine che consiglio di leggere sul sito dell’Istituto. Ne emerge un quadro preoccupante tanto che il nostro Paese viene così descritto: “Il sistema-Italia è una ruota quadrata che non gira: avanza a fatica, suddividendo ogni rotazione in quattro unità, con un disumano sforzo per ogni quarto di giro compiuto, tra pesanti tonfi e tentennamenti. Mai lo si era visto così bene come durante quest’anno eccezionale, sotto i colpi sferzanti dell’epidemia”.

Affiorano antichi atteggiamenti del nostro paese, sintetizzati nel titolo del primo capitolo della relazione:” Meglio sudditi che morti: le vite a sovranità limitata degli italiani e le scorie dell’epidemia”.

L’Italia del 2020 è “spaventata, dolente, indecisa tra risentimento e speranza. Il 73,4% degli intervistati indica nella paura dell’ignoto, e nell’ansia che ne deriva, il sentimento prevalente in famiglia; il 77% dice di aver modificato in modo permanente almeno una dimensione fondamentale della propria vita, tra lo stato di salute, il lavoro, le relazioni, il tempo libero. Ma anche passato quest’anno funesto, le scorie della pandemia, che comunque non è ancora superata, resteranno ancora a lungo nelle coscienze collettive: lo stesso concetto di libertà è messo in crisi dal virus e dalle azioni messe in campo per contenerlo.

Il 57,8% è disposto a “rinunciare alle libertà personali in nome della tutela della salute collettiva”, mentre addirittura il 38,5% è pronto a “rinunciare ai propri diritti civili per un maggiore benessere economico, introducendo limiti al diritto di sciopero, alla libertà di opinione, di organizzarsi, di iscriversi a sindacati e associazioni”.

In questa polverizzazione della società, scivolata rapidamente nell’individualismo, si allarga la frattura tra “garantiti e non garantititi”, cioè tra chi gode di protezioni sul lavoro e di redditi certi e chi all’improvviso è piombato nell’indeterminatezza. Dai “garantiti assoluti”, quelli con datore di lavoro lo Stato, 3,2 milioni di dipendenti pubblici, ai pensionati, la cui preoccupazione principale è fornire un aiuto economico a figli e nipoti in difficoltà, un “silver welfare” informale, di fatto reso possibile anche dalla certezza dei redditi pensionistici”.

Poi si entra nelle cosiddette “sabbie mobili”: il settore privato, in cui il 53,7% degli occupati nelle piccole imprese vive con insicurezza il posto di lavoro.

Chi paga il prezzo più alto sono le nuove generazioni disincentivate a rischiare e a giocarsi il proprio futuro nel mercato. Il 40% dei giovani è passato ad una classe occupazionale inferiore rispetto ai genitori, in particolare dentro i ranghi del terziario non qualificato.

Nel rapporto della Fondazione ci sono 2 capitoli che meriterebbero un approfondimento da parte della politica, uno sulla Sanità: infatti si parla della straordinaria opportunità di rilancio del sistema grazie all’inedita disponibilità di risorse, ma che per il momento manca uno sforzo organizzativo tempestivo.

L’altro paragrafo interessante è quello sull’”erosione di due pilastri dell’architrave sociale: libere professioni e rappresentanza”

Dai dati emerge che il 60% dei titolari di partita IVA, dagli artigiani ai veterinari fino agli psicologi, è in difficoltà, anche se per alcuni esponenti del centro sinistra “le partite iva non stanno peggio degli altri”.

Le rappresentanze sono in difficoltà, infatti il rischio di delegittimazione sta nella grossa quota di lavoratori, più di sei milioni in attesa di rinnovo contrattuale.

L’analisi entra nel merito dell’emergenza del sistema scolastico, ma questo lo sapevamo già. Un altro aspetto delle difficoltà è la crisi del mercato immobiliare in particolare per uffici e negozi nei centri storici ed una situazione di questo tipo evoca scenari pericolosi già passati.

Ma c’è anche chi sta peggio: “l’universo degli scomparsi”, non facile da stimare con esattezza ma che dovrebbe contare circa cinque milioni di persone: coloro che svolgono lavoretti, lavori casuali, lavoro in nero, colore che “hanno finito per inabissarsi senza rumore”.

Chi può risparmia. È così che al giugno scorso nel patrimonio finanziario degli italiani, che ha raggiunto un valore complessivo di quasi 4.400 miliardi di euro, la voce contante e depositi bancari ha acquistato un ulteriore peso, passando da una quota del 32,9% nel giugno 2019 al 34,5% nel giugno 2020. Fatta eccezione per le riserve assicurative (passate dal 25,1% al 26,1%), tutte le altre voci arretrano: le obbligazioni, azioni e altre partecipazioni, quote di fondi comuni. Tutte risorse che non entrano nel ciclo produttivo, che non creano ricchezza e destinate a erodersi.

La ricchezza privata degli italiani, da sola, rappresenta la sesta economia d’Europa. Un Europa nella quale crede solo Il 28% degli italiani.

Massimo Cingolani da ArcipelagoMilano del 16.12.2020

 

giovedì 3 dicembre 2020

LA RISPOSTA DI ICHINO

 

AFOL METROPOLITANA

All’articolo di Francesco Bizzotto LAVORO IMPRENDITIVO, Ichino risponde chiaro sulle politiche pubbliche a Milano. AFOL Metropolitana si ristruttura e rilancia i servizi al lavoro.

Caro Francesco,


rispondo molto volentieri alla sollecitazione contenuta nel tuo articolo Il lavoro imprenditivo. In sostanza mi chiedi: ”bene la teoria, ma sul piano pratico, visto che da un anno ormai sei membro del consiglio di amministrazione dell’AFOL, Agenzia per il lavoro e la formazione della Città Metropolitana di Milano, cosa stai facendo per realizzare le cose che teorizzi, in tema di servizi efficaci al mercato del lavoro?”.

 

Nel 2019 ho preso servizio – a titolo totalmente gratuito, è bene precisarlo – come membro del Consiglio di Amministrazione di AFOL insieme a Maurizio Del Conte, Marco Leonardi e Valeria Sborlino, trovando una situazione per molti aspetti deplorevole: un Direttore Generale incriminato e rinviato a giudizio (poi anche arrestato) per gravissime malversazioni; una struttura amministrativa priva di dirigenti e dunque di responsabili; assenza totale di un progetto (con corrispondenti obiettivi specifici, misurabili e collegati a scadenze temporali precise) volto a rispondere in modo innovativo ed efficace alle esigenze del mercato del lavoro del territorio milanese.

 

Questa essendo la situazione, la prima cosa da fare era ricostruire la struttura organizzativa sulla base di un’idea strategica precisa circa l’assetto e gli obiettivi della struttura, incominciando dal vertice. Abbiamo dunque proceduto a:

·         licenziamento in tronco del Direttore Generale (operazione non facilissima in un ente, qual è AFOL, ancora legato a procedure tipiche delle amministrazioni pubbliche e legato all’applicazione del contratto collettivo degli Enti Locali; operazione, altresì, non consueta, prevalendo altrove il malcostume amministrativo di attendere l’esito del procedimento penale prima di licenziare il dipendente responsabile di gravi mancanze verso l’ente datore di lavoro);

·         elaborazione di un progetto molto ambizioso di ristrutturazione e rilancio dell’attività dell’Agenzia, secondo le linee che sono esposte nel primo capitolo del mio libro a cui fai riferimento, L’intelligenza del lavoro (il cui contenuto rispecchia esplicitamente, appunto, questo progetto) e ottenimento del “via libera” per la sua attuazione da parte del vertice della Città Metropolitana, nostro “socio di riferimento”;

·         contemporanea apertura di un bando per l’assunzione di un nuovo Direttore Generale, con contemporanea diffusione dell’informazione in proposito, in modo da ottenere la partecipazione più ampia possibile da parte delle persone più qualificate;

·         selezione e scelta del nuovo D.G., nella persona del dott. Tommaso Di Rino, la cui eccellente esperienza e competenza ha potuto essere sperimentata in precedenza nell’amministrazione abruzzese;

·         bando e selezione, immediatamente dopo, dei tre dirigenti necessari per l’operatività della struttura, che si è appena concluso con l’insediamento di tre persone – due provenienti dall’interno della struttura e una da fuori – fortemente motivate per la realizzazione del progetto di cui sopra.

 

Forse, dal di fuori, un anno per questi quattro passaggi può apparire un tempo troppo lungo; ma posso testimoniare in piena coscienza che non lo è: per riuscire a compiere questi passaggi abbiamo lavorato molto intensamente.

 

Ora incomincia la fase di realizzazione dei servizi di orientamento, formazione mirata agli sbocchi effettivamente esistenti, monitoraggio capillare e permanente dell’efficacia della formazione impartita, sviluppo di un rapporto di fiducia con le imprese e con le persone che vivono del loro lavoro e cercano un’occupazione o intendono cambiarla.

Ora, dunque, incomincia la fase nella quale si devono incominciare a vedere i primi risultati operativi. Spero che questi siano corrispondenti alle attese e al nostro impegno. Appuntamento a – diciamo – tra un anno per una prima verifica.

Cordialmente

Pietro

 

Grazie a Pietro Ichino. Parole chiare e impegni precisi, dunque. Non è poco.

Un anno poi è ragionevole, in entrambe le direzioni. Forse per il post pandemia serve uno sforzo e investimento particolare. Specie nel Contado e per i giovani. Quante aziende entreranno in crisi? Le cose che Pietro Ichino dice sono comunque importanti:

·         Orientare e Formare in modo mirato (a quel che serve) e verificato nei risultati;

·         Conquistare la fiducia delle aziende e far dialogare la loro Domanda e l’Offerta di lavoro sempre; e in specie nel tempo di difficoltà e precarietà che anticipa le crisi.

·         Mirare a soddisfare (con una mobilità del lavoro ragionevole) entrambe le parti.

 

Forse è tempo di aprire le Istituzioni pubbliche alla convergenza e collaborazione delle parti sociali e del privato competente e interessato. Lo vuole l’Europa e può rafforzarne l’efficacia e il prestigio. Se ognuno opera separatamente, nel proprio campo, si moltiplicano i costi e si annebbiano i risultati. Rimangono le bandierine.

 

Ma, riconosciamo: nel panorama, gli obiettivi di AFOL sono belli e ambiziosi.

 

Buon lavoro! Seguiremo da vicino la nostra AFOL Metropolitana.

 

Francesco Bizzotto

martedì 24 novembre 2020

DIBATTITO SUL LAVORO A MILANO. IL PUNTO DI VISTA DI UN ASSICURATORE

 LAVORO IMPRENDITIVO

Noi Assicuratori amiamo l’intrapresa libera e impegnata, che investe, rischia. Dal XIV secolo siamo a fianco degli esploratori che uniscono e cambiano il mondo. Senza di noi non avrebbero osato. Oggi il Lavoro… Mi confronto con Pietro Ichino, studioso appassionato (“L’intelligenza del lavoro”, Rizzoli, 2020). Condividiamo l’idea del Lavoro imprenditivo, che si mette in gioco, non sta tranquillo, appartato. Ci sorprenderà: salverà il mondo. Ma, intanto, la storica e potente Agenzia del lavoro milanese AFOL che fa? Se non a Milano, dove?


“Tutte le lotte del movimento operaio, sin dai primordi, sono state lotte contro l’oppressione, non contro lo sfruttamento, per la libertà e il potere non per l’equità e l’uguaglianza materiale, per il rischio del libero arbitrio (…)

È la libertà, la liberazione, l’autorealizzazione della persona, della persona sempre ‘diversa’ (…)

È la libertà, i diritti scomodi, i diritti personalizzati e difficili, che non promettono felicità, ma sofferenze, dubbi scoperta, rischio, ma forse, con molte probabilità sviluppo ‘per scandagli’ della persona contro lo Stato provvidenza che eroga felicità invece che libertà (…)

È la libertà, il potere della persona contro la felicità elargita: (…) una libertà personalmente conquistata e praticata con la conoscenza e l’autorealizzazione (…;) il rifiuto della libertà per interposta persona (…)

Una buona occasione (…:) il passaggio dalla solidarietà per l’uguaglianza alla solidarietà per la libertà”.

Bruno Trentin, Diari 1988 – 1994, Ed. Ediesse, 2017, pag. 87 - 92

 

Desidero parlare di Lavoro imprenditivo, attivo, umile, appassionato. Penso che avrà il ruolo dei commercianti nel XIV secolo: esplorare, arricchire e unire il mondo. Chiamo a testimone Pietro Ichino, studioso impegnato e una gran bella persona. L’ho conosciuto a 25 anni: ero un sindacalista del mondo assicurativo e lui il nostro avvocato; ci dava sicurezza e prudenza. Di bella famiglia (il papà Luciano aveva uno studio legale affermato), aveva bruciato le tappe degli studi giuridici e scelto di fare il funzionario Fiom nel Nord Milano. Un amico di famiglia, don Lorenzo Milani, con il suo “classismo etico”, lo aveva sfidato a meritarsi fortuna e benessere. La Camera del lavoro (Lucio De Carlini) lo metteva a nostra disposizione per consigli e vertenze. Anche noi ci apprestavamo a cambiare il mondo.

 

Io, dopo tre anni in una tipografia a lavare rulli da stampa, da sei lavoravo in una splendida compagnia assicurativa americana (AIU Italy; oggi AIG) ed ero un tecnico dei rischi industriali; lavoravo e studiavo. Geometra delle Civiche scuole serali (pare fossimo 90.000 studenti serali negli anni ’60 a Milano), appena diplomato (1969) m’iscrivevo all’Università e partivo per il Militare. Al rientro (1971) ero coinvolto nel Movimento Studentesco e poi nel sindacato (Filda Cgil, 1973) per un decennio.

 

Abbiamo questo interesse in comune: il lavoro, che da molti anni è debole, frantumato, carsico. Riemergerà bellissimo – pensiamo – all’interno del fare impresa. Sì. Ichino e io abbiamo in comune quest’idea incredibile: il lavoro assumerà il volto della imprenditività (libertà, passione, investimento personale, creatività, rischio) e delle relazioni il più possibile scelte. Alla Enzo Spaltro, il maestro, che invita a “sognare ciò che non esiste”. Il lavoro innoverà l’impresa liberale e la salverà: ora mostra la corda, è insostenibile, non sa prevedere le conseguenze dell’agire; non sa gestirne i rischi. Tocchiamo con mano i suoi azzardi. A dire il vero è stata caricata come un mulo e lasciata sola.

 

Schumpeter (1883 – 1950), che fissa il ruolo creativo, anticipatore dell’imprenditore, snobba il rischio; ha una concezione frequentista (e fatalista) della probabilità di danno: guardare al passato e fare i dovuti accantonamenti. È prigioniero di una concezione statica, individuale e solo razionale del rischio. Ora, il lavoro può contribuire ad andare oltre, verso approcci di Rete, quantici, olistici (d’influenza e accrescimento reciproci), sicuri perché capaci, etici, sottili, contemplativi. Dove “contemplare” (dicono le splendide suore cattoliche Usa della LCWR – Leadership Conference of Women Religious) significa stare concentrati e vedere bene, ammirare, apprezzare e processare (agire) con impegno, passione e precisione. Armonia: ciò che serve. Una dimensione che l’impresa cerca e intravede. Il lavoro darà una mano; la salverà, con la Terra. È il caso di dire: non ci si salva da soli.

 

“We ground all we are and do in a contemplative stance”

(Tutto ciò che siamo e facciamo è radicato in un atteggiamento contemplativo) – LCWR

 

Il Lavoro imprenditivo, dunque: non rifiuta il mercato e la concorrenza; scommette sulla libertà personale e mira a un salto di qualità nelle relazioni d’impresa. Credo che piacerebbe a Bruno Trentin, generoso Segretario generale della Cgil (anni 1988 – 1994), che però non è giunto a farsi carico delle ombre (dei rischi) del fare impresa. Rimane un maestro.

 

Il lavoro imprenditivo è a casa nella Rete (Lavoro di Gruppo) che unisce l’azienda e valorizza e rispetta competenze, capacità, ruoli e autonomie; scommette sul conflitto di merito che s’immischia, s’appassiona, non su quello divisivo, antagonistico. Questo lavoro ci sorprenderà: esalterà la tecnica, ne reggerà i grandi rischi (già in campo, paurosamente) e risolverà i problemi. Sarà di riferimento per la ricerca e la PA.

 

Ora, se non mi spiego, nessuno ci crede. Salgo sulle spalle di Pietro Ichino (ex senatore, professore di Diritto del lavoro) e poi mi differenzio. Rimando al suo libro, ricco di esempi, classificazioni, motivazioni. E ricordo tre tesi chiave che meritano una sottolineatura:

 

1.    Mirare a far sorgere e attirare imprenditori (Worldwide). Creare le condizioni. Pensarci. E far crescere l’attenzione alla cultura del concorrere, dell’intrapresa, del bel rischio. Infatti, “l’imprenditore è un lavoratore che rischia”, diceva Walter Veltroni;

2.    Orientare e formare per il lavoro che c’è, e far dialogare / incontrare la domanda delle imprese e l’offerta; ridurre il disallineamento, il mismatch. Ora, 1,2 milioni di posti di lavoro sono disponibili e vengono occupati con difficoltà e ritardo. Reperito questo milione, saremmo al 5% di disoccupazione. Fisiologico, differenze a parte. Un sogno;

3.    Superare il monopsonio; pareggiare il potere di scegliersi tra imprenditore e lavoratore; consentire a entrambi di concorrere a mente libera, liberamente. Qui trova senso la Flexsecurity europea: l’imprenditore assume e licenzia facile, e il dipendente pure (se ne va, si ricolloca). Lo ha detto chiaro il Sindacato cattolico francese CFDT.

 

Faccio quindi tre note su punti a mio avviso deboli e necessari al Lavoro imprenditivo. E mi differenzio da Ichino (lo critico; porto un contributo):

 

A.     Come e perché superare il monopsonio, pareggiare le chance di scelta tra impresa e lavoratore? Le fasce alte del lavoro sono attive: un 30 o 40% cerca e trova l’azienda giusta per lui, in cui impegnarsi, crescere, fare carriera. Lo fa per vie soggettive, familiari, amicali. E l’azienda si destabilizza, perde i migliori. Infatti il rischio “attrarre e trattenere talenti” è il più temuto dalle imprese, dopo quello della “sfida digitale” (North Caroline University). Ciò spiega la ritrosia (poco indagata) delle aziende a dire quali professionalità servono. Cosa che complica tutto, ed è l’azienda a perderci: non vede il 60 / 70% di potenziali suoi giusti collaboratori. Qual è il punto? Ichino chiama il Sindacato a scoprire, accanto al ruolo rivendicativo e di tutela, anche quello di visione, prospettiva e promozione del lavoro; lo invita a farsi parte attiva per cercare / scegliere l’imprenditore. Specie quando l’azienda è in crisi e si prospettano ridimensionamenti, licenziamenti, chiusure. Il Sindacato come intelligenza collettiva. E va bene. Osservo che la persona giusta al posto giusto (oltre il monopsonio) serve alla produttività e verrà solo se alla base c’è un diritto personale. Il collettivo si basa su valori individuali, con loro Istituzioni. Se no è vento, come la bella iniziativa del Corriere della sera “TrovoLavoro”, durata qualche mese.

 

B.     È allora centrale l’Istituzione di territorio per le Politiche attive del lavoro. E qui siamo al punto: se è debole l’assetto istituzionale, tutto è estemporaneo, evanescente. Nei diritti individuali e in quelli collettivi. È così anche a Milano, nonostante una gran bella tradizione di sostegno al lavoro, in termini di formazione professionale e non solo. Un esempio? La riconversione delle fabbriche fordiste a Sesto S. Giovanni, senza morti e feriti. E scusate se è poco. Ora, Ichino siede nel Consiglio di amministrazione di AFOL Metropolitana, l’Agenzia del lavoro che ha messo a sistema la storia, ed è stata lasciata a se stessa, dopo aver fuso le cinque AFOL milanesi nello scorso decennio. Operazione che ho condivisa – da ex presidente di AFOL Nord Milano – ma che delude. Il lavoro a Milano appare trascurato, mentre dovrebbe avere (con la pandemia) un sostegno straordinario. La cosa da fare subito è dialogare con le imprese per dare una mano, trovare soluzioni condivise; far convergere risorse e iniziative, pubbliche e private. Ecco a cosa serve l’Istituzione. E anticipare i problemi, non rincorrere le crisi. Il presidente di AFOL Metropolitana è Maurizio Del Conte, che nel 2015, su input di Renzi, ha creato ANPAL, l’Agenzia nazionale per le Politiche attive. Ottima. Sa il fatto suo, ma tant’è: AFOL è adagiata su vecchi schemi di formazione (e poco altro), da cui cercavamo di uscire 12 anni fa! Manca al ruolo di prospettiva: un plurale coinvolgimento. Ad esempio dell’Assicuratore, impegnato dall’Europa (Solvency II) e disponibile a fare “investimenti infrastrutturali prospettici”, materiali e sociali. Chiamato poi ad assicurare il lavoro, agirebbe per anticipare i problemi, evitare conflitti e licenziamenti (evitare “sinistri”). È, paro paro, l’orientamento del Codice della Crisi d'impresa e dell'insolvenza. In Europa tutto torna.

 

C.     Il Lavoro imprenditivo piano piano farà decollare la Democrazia industriale e risolverà la crisi ambientale. Occorre allora valorizzare, liberare gli accordi aziendali in due chiare direzioni: il Dialogo produttivo responsabile (creare, innovare, competere) e la Gestione dei rischi aziendali, fattasi molto complessa: pensiamo al Cyber risk, e poi al 5G e all’AI, esaltati dalle piattaforme del Lavoro a distanza; necessita di un impegno umano corale e di presenze consapevoli e anticipatrici (immaginare e processare l’attività con cura, come faceva il mitico Ayrton Senna). Meritano una fiscalità di vantaggio gli accordi che facciano maturare insieme la Democrazia industriale e la Gestione dei rischi. O no?

 

Cresca allora il Lavoro imprenditivo: farà produttività e sicurezza – Safety – attive, capaci di reggere grandi rischi (e prevenire i disastri), non passive – Security – spente, assistite.

 

Caro Ichino, caro lettore e cara impresa, la morale è semplice, mi pare: la nostra forza – la democrazia, l’Europa – è il dialogo delle idee, degli approcci, dei poteri, degli interessi e delle Istituzioni. Diciamolo a noi stessi, oltre che a Viktor Orbàn, il leader populista che in Ungheria vuole aiuti e non rispetta i diritti: vuole comandare e distribuire risorse. Questo dialogo saldo e plurale consentirà di uscire dal tunnel e rischiarare (rischiare) il contesto.

Francesco Bizzotto, ex presidente di AFOL Nord Milano

domenica 25 ottobre 2020

OVUNQUE NEL MONDO

 LA DEMOCRAZIA PROMETTE BENE

Falcomatà a Reggio Calabria riaggancia le associazioni e i competenti. Vince e chiede scusa. La stabilità di Governo è una precondizione se fa sostanza. Splendidi esempi dimostrano che la forma di Governo più bella è la Democrazia. Diciamolo forte. Per il mondo intero, che ne ha bisogno.

Dato in svantaggio di 10 punti ai nastri di partenza, Giuseppe Falcomatà (centrosinistra; 37 anni; sindaco uscente di Reggio Calabria) è stato rieletto con il 48% dei consensi contro il 41 di Antonino Minicucci. Come ha fatto? La domanda è fondamentale per chi ama la buona Amministrazione pubblica e la buona Politica. Ha ripreso i rapporti con la città, con la società degli impegni, delle passioni e delle competenze. Certo, ha messo a frutto la giovane età e il buon nome del padre Italo, docente e storico, sindaco dal 1993 al 2001 della Primavera di Reggio. Figlio d’arte, ha capito, sfidato e promesso: “Faremo insieme”. Ha chiesto scusa alla città e si è impegnato a mischiarsi e coinvolgere le “forze sane”, “le associazioni, i comitati, gli ordini professionali e tutti i cittadini di buona volontà”: “partecipate e intervenite”. Quando, dove? Rinviati per la pandemia gli “Stati generali della città” previsti per il 19 – 23 ottobre, si è aperto uno scenario più grande: i contributi raccolti online sono oltre 250 e il dibattito si fa smisurato. Vedremo. Falcomatà farà la parte sua: leggerà, ascolterà e metterà a punto la visione che propone a Reggio. Fondamentale.

Per noi la domanda allora diventa: a fronte di una grande complessità del fare Politica (per ragioni di crescita sociale, di sensibilità e possibilità), dobbiamo insistere e rilanciare la Democrazia o dubitarne, sbandare, uscire di strada? Molti analisti dicono che il problema della Politica è la decisione. E concludono: servono Istituzioni stabili per poter guardare lontano, fare progetti, assumere responsabilità, decidere con respiro strategico. Con un Governo all’anno (66 in 73 anni) non si governa; si bada al consenso, ai sondaggi. È vero. La stabilità (avere tempo e decidere) è fondamentale. Senza, tendi a fare annunci e ad accontentare un po’ tutti, schiavo di alleanze contingenti, dette strategiche ma non è vero.

 Non ci dobbiamo arrendere all’autoritarismo

La questione è se il modo di fare l’interesse generale aperto a critiche e influenze, basato sulle relazioni, sul voto capitario e su rappresentanze e poteri mobili, contendibili, quasi occasionali (la Democrazia) regge e ha prospettive o se ci dobbiamo arrendere all’autoritarismo, che anche qui è nell’aria, condito in salse diverse. Quali salse? La nazionalista (contano le culture, le tradizioni, l’autonomia del Paese), la populista (conta il radicamento e riferimento popolare semplice, immediato), la tecnocratica (contano i dati, i voti, i like, l’ordine, l’efficienza). È evidente: l’autoritarismo è molto manipolatore. E poi, chi decide veramente? All’orizzonte appare l’Uomo forte. Abbiamo già dato! Insomma, per la Democrazia merita impegnarsi, investire, innovare o dobbiamo (dopo diverse esperienze tipo Trump) cambiare sistema, come suggeriscono Cina e Russia?

Sia chiaro, questi due Paesi hanno visto in un secolo rivolgimenti epocali, generosi e drammatici, in cui noi occidentali siamo molto coinvolti. Nelle premesse e nelle conclusioni, nel bene e nel male. Preciso: siamo corresponsabili delle idee, delle motivazioni, delle sofferenze e dei risultati che hanno sconvolto, esaltato, edificato questi grandi Paesi. Non possiamo pensarci lindi, fuori e migliori. Essi però sono giunti a praticare forme di potere che vanno per le spicce, autoritarie fino a sembrare autolesioniste (conviene maltrattare gli oppositori e reprimere le aspirazioni alla libertà?). Mostrano uno sprezzo per la Democrazia che è una sfida per la prospettiva più alta: il sistema di egemonia e di Governo (autogoverno) globale, mondiale. Necessario, urgente.

 Indirizzi ed esempi di buon Governo democratico

Mi sembra che si debba prendere molto seriamente la questione della Politica, del Governo. È il primo nodo che l’umanità può cercare di sciogliere per salvarsi su questa devastata Terra. Devastata. Come abbiamo potuto? E come porvi rimedio? Ma, non siamo all’anno zero. Il dialogo in sede ONU ha dato tre riferimenti fortissimi: 1° Ambiente / Sostenibilità, 2° Società / Inclusione e 3° Governo / Decisioni trasparenti (ESG – Environmental, Society, Governance). È un indirizzo largamente condiviso, da praticare, che mi pare dica: la stabilità di Governo è una precondizione se fa sostanza. E io mi chiedo: come ottenere norme di stabilità nazionali e globali? Basta chiederle? Falcomatà ha avuto e ha davanti a sé una prospettiva stabile e ha capito che non basta.

Come Ursula von der Leyen, stabile presidente della Commissione europea, che ha chiesto scusa all’Italia per le incertezze della prima fase del Recovery Fund. È forte per un avanzato programma sia sociale e ambientale sia internazionale, di cui sottolineo l’attenzione all’Africa e ai suoi Paesi più aperti e impegnati: l’Etiopia, ad esempio, del Primo ministro Abiy Amhed, che fa la pace con l’Eritrea e forma un Governo composto per metà da donne. L’Etiopia, che ha eletto Presidente – prima donna africana – Sahle-Work Zewde: auspica per le donne un ruolo di soggetti attivi, decisori nella vita pubblica. Grandi!

Come Jacinda Ardern, leader laburista della Nuova Zelanda. Ferma, gentile e rispettosa delle differenze, ha recuperato consensi al suo partito e vinto le elezioni all’insegna del motto: “Noi siamo una squadra”. Una squadra, un Paese, che lascia sul terreno solo 25 morti da Covid-19, su 5 milioni di abitanti, e pone al centro la povertà infantile (in larga parte Maori), pur soffrendo per la chiusura dei confini e il crollo del turismo.

Come Joko Widodo, presidente della Repubblica d’Indonesia: 271 milioni di abitanti con centinaia di gruppi etnici in 17.508 isole. Widodo, già creativo imprenditore del legno, è espresso dal Partito Democratico Indonesiano della Lotta – progressista. Rieletto nel 2019 per 5 anni, punta molto sulla mobilità (infrastrutture di collegamento dell’arcipelago) e sull’indipendenza del Paese. l’Indonesia, che nel 2050 contenderà all’Europa la quarta posizione tra le potenze economiche, dopo Cina, India e Usa, sostiene il diritto di praticare la pena di morte per i trafficanti di droga e di affondare i pescherecci stranieri illegali.

La Democrazia chiama il bel Rischio

Insomma, Giuseppe Falcomatà, Ursula von der Leyen, Abiy Amhed con Sahle-Work Zewde, Jacinda Ardern e Joko Widodo hanno fiducia nella Democrazia, la ripensano e la praticano, a modo loro. Non si fermano alla stabilità istituzionale. Vedo quattro parole chiave (lemmi della tastiera democratica): una sicura Stabilità, una chiara Visione (indirizzo), Decisioni puntuali e Coinvolgimenti responsabili. Il Coinvolgimento in particolare, nel quale sono impegnati Falcomatà, i leader etiopi e la Ardern, implica di ripensare la Rappresentanza e ha una significativa valenza: il nostro è sempre meno il tempo degli uomini e delle capacità straordinari, e sempre più dell’iniziativa riflessiva, misurata, diffusa: del Rischio ordinario. E "la società del rischio non ha alcun eroe né alcun signore" (Niklas Luhmann, Sociologia del rischio, Mondadori, ‘96, p. 120).

La società del rischio (del “bel rischio”, precisa Deborah Lupton, che insegna a Sydney) pretende libertà, dinamica, non statica; mira a una sicurezza attiva (Safety), non passiva (Security), distingue Zygmunt Bauman; vuole rappresentanti vicini, coraggiosi, in ascolto; chiede sì protezione ma preferisce attivarsi e anticipare gli eventi. La società del Rischio merita rispetto e va ancorata, zavorrata. La specifica Gestione è molto arretrata. Non ci siamo. La buona Gestione del Rischio merita una significativa fiscalità di vantaggio. Perché la libertà sciolta tende a esagerare, e il rischio mal gestito a farsi tracotanza, azzardo, su tutti i piani. Le ultime prove vengono dal Cyber risk e dal Rischio Ignoto (oggi la pandemia).

Favorire e zavorrare le libertà personali (renderle responsabili di azioni e relazioni) porta, in Politica, a scoprire un tesoro: a mettere in sana concorrenza conoscenze, competenze e capacità che (scatenate, liberamente associate, in rete) sono la nostra prima risorsa, mi pare dica Falcomatà. Possono ben affiancare le narrazioni di cui ci siamo nutriti, e offrire un’alternativa alle ideologie e alle pretese di potere, finalmente. Di destra e di sinistra. Lo dico dopo essere stato comunista in gioventù e dopo avere letto parole tremende del mitico Carl Gustav Jung, che lisciavano il pelo al peggio, forse, dell’autoritarismo (a Hitler).

Allora, smettiamola di cercare capri espiatori (ad esempio, prendercela con la burocrazia). Rimettiamo al centro la Politica e parliamo chiaro. Su questo terreno, diceva il filosofo tedesco Hans Georg Gadamer, la cultura europea ha dell’ottimo fieno in cascina.

 Così, auguro a Giuseppe Falcomatà, a Ursula von der Leyen, ad Abiy Amhed (con Sahle-Work Zewde), a Jacinda Ardern, a Joko Widodo e a tutti i politici appassionati, coraggiosi e capaci che credono nella Democrazia, nel bel Rischio, di avere successo. Sono loro che ci salveranno.

Di Francesco Bizzotto

lunedì 28 settembre 2020

FARE RETE INTELLIGENTEMENTE

 "B CORPORATION"

Divagazioni sul tema sostenibilità e prevenzione dei danni

Sostenibilità, prevenzione, rete. Grandi temi, un po' sottotraccia, riassumibili nell'espressione B Corporation. Ne parla in una bella intervista (Corriere della sera Economia, 2 settembre scorso) Sara Moraca con Jeffrey Sachs della Columbia University, che invita, appunto, a fare "B Corporation", cioè imprese e attività sostenibili; che abbiano futuro e siano, nell'attorno, benedette, non maledette. Chiaro?


Sostenibilità energetica, circolarità dell'intrapresa: produrla anche, l'energia, e non fare rifiuti, non inquinare. E non solo. Prevedere, anticipare le varie conseguenze indesiderate dell'attività: i Danni propri (che solo propri non sono quasi mai) e a terze parti, interne ed esterne. Gestire i rischi. Meritare fiducia.

Sachs dice: "Abbiamo bisogno di obiettivi condivisi e incentivi chiari per raggiungerli. (...) Si tratta della solita lotta: la tecnologia ci rende più potenti, l'etica è necessaria per usare questo potere per fare del bene".

L'etica, sappiamo, va sostenuta, incentivata, appunto. Sono convinto che basti poco: bastano buone motivazioni e vantaggi fiscali, anche piccoli. È questione di volontà, di decisione politica. Dare voce ai competenti ed essere conseguenti.

Le compagnie di assicurazione, ad esempio, già impegnate dall'Europa a mettere in sicurezza i loro bilanci con "investimenti infrastrutturali prospettici" (Solvency II), sono disponibili e possono - coerentemente - orientarsi alla Prevenzione dei danni nella quotidiana assunzione dei rischi. Cosa di cui c'è gran bisogno. Come?

Con un uso intelligente della tecno-informazione biunivoca da e verso gli assicurati. Peraltro, se non lo fanno, corrono il rischio di lavorare male e quindi di essere chiamate dalle Istituzioni, dalle comunità, da singoli, corresponsabili di danni eclatanti negli enti da loro assicurati.

Voi capite che, a stare nel Consiglio di amministrazione di una compagnia di assicurazione, c'è da non dormire di notte. Un rischio, un'ombra, che ha il suo lato in fiore. Se leggi il rischio alla Bruno de Finetti (il grande matematico applicato, per un po' assicuratore) come probabilità soggettiva relazionale in cui ti coinvolgi attivamente, puoi prendere (assumere) un rischio che pesa 10 e ritrovarlo pesare 7 o 5. E tu ci straguadagni, nel tempo in cui il libero mercato adegua quel rischio al suo effettivo valore di trasferimento. Bottino d'impresa, lo chiama Schumpeter. Bello, vero?

Una politica assicurativa orientata alla Prevenzione merita per le sue polizze un forte vantaggio fiscale (portare la tassa dal 22,25% al 10%). Conviene a tutti.

Questo tipo di scelte Politiche che orientano a lavorare bene liberamente (a scegliere di agire bene), creano un clima di fiducia nel futuro che rende sostenibile il debito. Se no, il nostro debito non è sostenibile.

Un altro esempio? La PA locale. Prendiamo Milano. Ha 134 Comuni, uno monstre, 133 di piccola taglia. Così ogni amministrazione viaggia nella nebbia a costi altissimi e procedure spesso opache. Che fare? Come guardare al futuro? Triplichiamo gli incentivi (che già esistono) a consorziare i servizi di Comuni vicini, a unirsi, a fare rete. Cosa succederà? Potenzieranno i servizi, faranno hub di responsabilità centrali, apprezzati dagli investitori e dai cittadini. Crescerà il ruolo della PA, si faranno economie e crescerà anche la fiducia dei mercati. E il nostro debito apparirà e sarà sostenibile. Appunto. "B Corporation".

Francesco Bizzotto

venerdì 11 settembre 2020

POSSIBILITA’ E RISCHI NELLA FASE 3 DEL COVID

IMMAGINA, ANTICIPA, PROCESSA

Dare spazio al Risk Management "Sorridi, respira, vai piano"

Effetto Covid. Per la "sostenibilità" delle attività serve formare alla Gestione dei rischi in modo nuovo e scrupoloso.

L'Italia è al 18° posto su 144 economie di cui il GAI (Global Attractivenes Index) di Casa Ambrosetti misura l'attrattività economica. Tra gli indici utilizzati, per la prima volta compare la "sostenibilità". Si conferma un cambio di passo che induce a riflettere. Per attrarre investitori i territori devono far crescere la cultura della Gestione dei rischi. Praticarla.

La sostenibilità implica la diffusione di competenze scientifiche mirate, utili alla sistematica valutazione (di base e di processo) delle probabili conseguenze negative, indesiderate, dell'agire. Una prateria sterminata e promettente.

La complessità delle cose richiede un salto di qualità nella Formazione alla Gestione dei rischi: vederli (consapevolezza); considerare i beni e le responsabilità coinvolti; stimare le probabilità di danno oggettive (e soggettive); trattare, mitigare i rischi (prevenzione dei danni e protezione di beni, persone, ambiente); trasferire, assicurare, i rischi insopportabili (i grandi rischi) e tenere in proprio i piccoli rischi (sono formativi e il costo del loro trasferimento è troppo elevato).

I molti, benemeriti, master di Risk Management fioriti un po' dovunque si confrontino e trasformino in corsi approfonditi: motivazioni e metodologie, teoria e pratica, atteggiamenti e comportamenti. Impegno, applicazione, continuità, cultura.

Vanno definiti ancoraggi nuovi per Gestire bene i rischi delle attività, sia d'impresa sia di vita. Nessuno dei due ambiti va trascurato: si influenzano reciprocamente in modo prepotente. Vanno acquisite competenze e compiuti percorsi di consapevolezza. Qui l'Occidente ha un ritardo storico. Ma l'Oriente sta bruciando un certo, prezioso vantaggio abbagliato dalla tecnica, dal benessere solo materiale, dalle apparenze, dalla smania del riconoscimento (la malattia del potere). Il giorno più bello? Quando Oriente e Occidente, su questo terreno, si incontreranno e parleranno.

Il nostro primo passo? Dobbiamo imparare e abituarci a leggere ex ante e insieme le Possibilità e i Rischi delle nostre attività. Renderlo un automatismo. Metterlo nell'inconscio. E poi imparare a procedere con un certo ritmo (sostenibile), una certa armonia: immaginare, anticipare, processare le Possibilità / Richio, come faceva il mitico Ayrton Senna prima di ogni Gran Premio di Formula Uno e durante.

Con locuzione negativa diciamo: non separare le Possibilità dai Rischi (il lato in fiore dalle ombre); trattenerci un po', non aggredire le Opportunità (l'aspetto positivo); non lasciarci prendere dalla frenesia, dalla fretta, dalla corsa; non temere l'aspetto negativo (non avere paura del Rischio).

"Sorridi, respira, vai piano" dice il monaco buddhista Thich Nhat Hanh, eroe non violento della guerra del Vietnam, francese d'adozione.

È un percorso che crea maturità, visioni etiche e produttività. Determinerà un cambiamento nelle catene del valore e di fornitura. Chi parte subito sarà avvantaggiato: segna la pista e ne trae un bottino, alla Schumpeter.

Francesco Bizzotto

martedì 28 luglio 2020

Considerazioni sull’ intervista di Walter Veltroni a Achille Occhetto

Per una POLITICA come RISCHIO

Rimastichiamo questioni del ‘900 o andiamo oltre? Craxi? La sua scelta occidentale è stata intuitiva e generosa. Adesso, al cuore della questione poniamo il rischio. Vale per la politica, oltre che per l’impresa e la famiglia. E c’è un messaggio per le donne: mirate al bel rischio, non al comando!

 

Ho letto l’intervista a Occhetto di Veltroni (Corriere della sera, 19 cm) e ho strabuzzato gli occhi: sono due ex segretari ed è passato un quarto di secolo! Vicende lontane, Berlinguer mitizzato, retroscena e personalismi; e i più sono morti o zittiti. Fa questioni formali, di alleanze, schieramenti, dove ogni parte aveva sia buone ragioni sia complessi retroscena e vie di fuga. L’importante era vincere. Incertezza e ambiguità tenevano campo. Come oggi.

 

Li inviterei a rifare l’intervista e chiedersi come meglio si può rappresentare e governare. Basta votare e delegare? Da dove calano gli obiettivi? Come si organizzano i contributi di merito, le competenze? Non si dovrebbe distinguere tra i partiti (fuori dalle Istituzioni) e chi governa e amministra (con una certa autonomia)? I partiti poi, si attengono al “metodo democratico” previsto dalla Costituzione?

 

Occhetto è figlio del suo tempo. Non è mai stata fatta una discussione sulle ragioni del voto che nel ’94 gli ha preferito il Berlusca. Nella sua “gioiosa macchina da guerra” erano asserragliati molti sconfitti dalla storia. Non sapendo fare i conti, si è tenuto saldo il capro espiatorio (Bettino Craxi) che, come ha detto René Girard, serve per non fare la fatica di capire le crisi (a volte è obiettivamente difficile): “È colpa sua. È stato lui”.

 

Craxi era combattuto, ma l’alternativa era di merito non di alleanze, collocazione (governo o opposizione). Craxi aveva favorito l’evoluzione democratica della sinistra e riformista del Pci (il distacco dall’Urss): al Pci aveva aperto le porte dell’Internazionale socialista. Se non lo avesse fatto, sarebbe rifluito nel campo sovietico o si sarebbe spaccato. E poi, la scelta di Craxi per l’Occidente e per l’unità europea fu lungimirante, come il sostegno ai dissidenti dell’Est comunista. Lo ha testimoniato il cecoslovacco Jiri Pelikan, morto nel 1999, esponente della Primavera di Praga, esule in Italia ed europarlamentare del Psi.

 

Questa politica di Craxi ha rafforzato la democrazia e isolato l’Urss. Due fatti positivi che i comunisti in quegli anni non gradivano. Il contributo di Craxi va riconosciuto e studiato. A meno che non riduciamo la discussione al tema del finanziamento dei partiti, tutti e tutt’ora gonfiati come rane da un ruolo sopra le righe, esagerato, opaco, rifiutato e indiscusso. Un ruolo che forse spiega gli eccessi burocratici dei nostri apparati.

 

E oggi siamo qui, con una situazione difficile, per fortuna ben mediata dall’Europa. E noi corriamo il rischio di affrontarla con la solita distribuzione a pioggia temuta dai “frugali” (i Paesi del Nord) e dannosissima: ci renderebbe meno competitivi. Siamo a più 175 miliardi di debito (maggio su maggio). E cresce la rabbia. Sì, l’impressione è che si siano usati i canadair per dar da bere agli assetati. Ma, non è un errore. La rincorsa del consenso è una costante a sinistra, che spinge il Paese a destra. Ora, urgono riforme per l’equilibrio e il rilancio del Paese, e servirebbe l’esperienza riflessiva di Occhetto e Bersani, come degli Acquaviva (già dirigente delle Acli), Tognoli (già sindaco di Milano) e Formica (classe ’27, confida in Angela Merkel, Christine Lagarde e Ursula von der Leyen).

 

Capiamoci: chi si sdraia sul consenso non mira a ri-formare la società, le sue relazioni, ma a cambiarne il comando. La politica come potere: paurosa! Bruno Trentin, già segretario comunista della Cgil, l’ha definita, quella della sinistra e del Pci in particolare (oggi estendibile senza una piega ai 5 Stelle), “scienza elitaria dell’occupazione del potere”. Trentin ha molto sofferto per questa concezione distorta e micidiale della politica. È il limite, la nebbia che ha fatto soffrire Occhetto, Veltroni, Craxi e Martelli. E molti altri. Di alcuni ho scritto, perché li ho conosciuti: Gianfranco Troielli (imprenditore amico di Craxi, Agente generale dell’INA Assitalia di Milano) e Gianfranco Mastella (sindaco di Paderno Dugnano). Il mio obiettivo è cambiare e lenire queste sofferenze. Non cerco capri espiatori o vendette.

 

La questione che la politica ancora non sa affrontare è che si deve mirare (e dire, educare) in primo luogo ai percorsi di riforma maturi, a cambiamenti micro

-sociali, ad articolare meglio le relazioni e le istituzioni, non a vaghi ideali e, in buona sostanza, a schieramenti e contrapposizioni ignoranti. Non a sostituire il ceto politico che governa. Il bello è che la regola vale per ogni tipo d’impresa: se anteponi il tuo comando alla sua vita, all’armonia delle sue relazioni interne ed esterne, non le fai un bel servizio; anzi, ne prepari la sconfitta. Vale anche per la famiglia ed è un messaggio alle donne: non mirate al comando!

 

C’è dietro, insomma, un errore di fondo che forse risale ai filosofi greci (cercavano la sostanza delle cose e svalutavano le relazioni) e che i Fabiani inglesi hanno messo bene a fuoco: si impegnavano a formare e far crescere l’uomo nelle diverse situazioni, mi diceva Mastella. La politica invece, a fronte di una realtà per alcuni aspetti ingiusta e inefficiente, cosa fa? Ne immagina una nuova e la reclama, la chiede, la pretende: nuova e giusta.

 

Ma, questa realtà immaginata sta al termine di un percorso di attuazione che rimane nell’ombra, perché ciò che interessa è il risultato finale, la sostanza, la giustizia (con me al comando, ovviamente: così la farsa è l’annuncio). Non prende, non convince. Secondo Henri Bergson è un limite della nostra intelligenza. Non una cosa da poco. Ascoltiamolo:

 

“È il risultato delle azioni che ci interessa. […] Noi siamo interamente tesi al fine da realizzare. […] La mente si dirige di colpo allo scopo, ossia alla visione schematica e semplificata dell’atto nel suo essere immaginato come compiuto. […] L’intelligenza rappresenta dunque alla attività solo degli scopi da raggiungere, ovvero dei punti di stasi. E, di scopo raggiunto in scopo raggiunto, di stasi in stasi, la nostra attività si sposta attraverso una serie di salti, durante i quali la nostra coscienza si distoglie il più possibile dal movimento che si compie per conservare soltanto l’immagine anticipata del movimento compiuto. […] Esaminate da vicino ciò che avete in mente quando parlate di un’azione che sta compiendosi. C’è l’idea di cambiamento, è ovvio, ma rimane nascosta, in penombra, mentre in piena luce c’è la figura immobile dell’atto considerato come se si fosse già compiuto. […] La conoscenza si riferisce a uno stato, anziché a un cambiamento. […] La mente si ritrova sempre ad assumere una prospettiva di stabilità su ciò che è instabile.” Henri Bergson, L'evoluzione creatrice (1941), Cortina ‘02, pagg. 244 - 248.

 

Anche in politica poniamo in piena luce la figura immobile dell’atto considerato come già compiuto: è il risultato ideale, il sole che deve sorgere. Aria di famiglia un po’ per tutti. Ma non è così anche per la tecnica (l’Intelligenza artificiale, la robotica, la genetica, il 5G e l’Interconnessione delle cose), a cui in questi giorni autorevoli opinionisti chiedono che si dia libero corso? Che cosa non va in questo modo di fare e interpretare la politica, le attività, la tecnica, lo sviluppo? Cosa è sbagliato, cosa manca in questo approccio?

 

Vediamone prima le buone ragioni, i vantaggi. Questa capacità (è potenza immaginativa, il nous degli antichi) ha dato grandi frutti: abbiamo anticipato, creato, cose e ordini straordinari (terreni e celesti); si sono scatenate energie sconosciute, incredibili, ma… Non ne abbiamo messo bene a fuoco i pro e i contro. Molti i pro. Ma, i contro e i costi sono rimasti in ombra. Splendono e fanno scuola i risultati utili e belli. Del Rinascimento brillano le città italiane.

 

Ora, l’incremento quantitativo dei mezzi e dei beni (scienza, tecnica, bellezza) prepara un rovesciamento: i beni e i mezzi, da strumenti di libertà per l’uomo, diventano vincoli, strumenti di limitazione e poi di distruzione. Perché? Torniamo a ciò che è sbagliato nell’intelligenza: assumiamo una prospettiva di stabilità e compiutezza su ciò che è instabile, in divenire; significa che trascuriamo il processo, il percorso, la via di realizzazione dell’obiettivo che ci siamo dato. Viaggiamo al buio, a velocità crescente.

 

E perché è sbagliato non valutare bene pro e contro, viaggiare al buio? Perché il fine da realizzare è in realtà una possibilità, un potenziale; e “tutto ciò che è in potenza è in potenza gli opposti” (Aristotele, citato da Severino). La via, il percorso, il processo, è decisivo perché è sempre aperto, incerto, creativo e a rischio. Grande potenziale? Grande rischio. Cresce il primo? Cresce anche il secondo. Fino a quando si può reggere?

 

È il rischio l’ospite rifiutato e necessario, con cui dobbiamo imparare a fare i conti. Assai più della tecnica, galoppante e inchiodata dai libri dei filosofi. È il rischio il simbolo del nostro tempo. Vale per tutti gli ambiti: Ai, 5G, politica, impresa. Solo l’impresa ne sta tenendo conto con un bel dibattito che mira alla organizzazione a rete, coinvolgente, responsabilizzante. Non sarà facile, perché la rete è estranea alla tradizionale solitudine dell’imprenditore. Schumpeter, infatti, sottovalutava il rischio, ne faceva una questione statistica, di costi spalmabili. Mentre non è più la statistica (la frequenza, il passato) che misura il rischio, ma piuttosto l’intelligenza creativa, instabile, che s’immischia nell’impresa, che anticipa e gestisce. I professori faticano a capirlo quanto i tecnici.

 

Il mio obiettivo? È politico in senso largo: accettare e mettere al centro, in ogni ambito, il rischio (l’intrapresa) e attrezzarci a misurarlo e gestirlo, in entrambi i suoi lati (positivo e negativo, vantaggi e danni, insieme). Sta alla base del governare e richiede che il materiale (la tecnica, la ripetizione, il razionale, il digitale, il consenso) faccia un passo indietro e lo spirituale (i modi, le relazioni, la creazione, l’innovazione, l’etica) due passi avanti.

 

Gestire i rischi è cosa seria e complessa. Perché rischio è probabilità, misura; e il modo tradizionale di misurarlo (la statistica, gli eventi del passato) collassa. La vecchia misura (la matematica), il fondamento della tradizione occidentale (il razionalismo) e il mito di quella globale attuale (i dati) ci collasseranno tra i piedi. Lo intuisce chi, a tutte le latitudini, oggi si occupa di Cyber risk: non lo puoi gestire stando in prudente attesa, in difesa, assicurandoti ex post; devi attrezzarti per aggredirlo, gestirlo, anticiparlo, “assicurarlo ex ante”, direbbe Bianca Maria Farina, presidente dell’Ania, l’Associazione degli assicuratori.

 

Miriamo a intuire, anticipare gli eventi (con regole che neutralizzino i molti hacker irresponsabili del nostro tempo), per determinarne l’equilibrio, in positivo. Perché, insegna la Meccanica dei quanti, siamo influenti, sempre! Corrisponde all’insegnamento di Georg Simmel: l’umano è sempre creativo. A forza di gestire il presente in modo meccanico, guardando indietro (al passato, ai Big data), a forza di dare spazio alla potenza e aspettare i danni a cui rimediare (a posteriori), finisce che impattiamo con eventi dannosi senza rimedio. Questo è il punto. Il mio impegno mira ad accogliere l’enigmatico invito di Galileo che sta alle origini della scienza: Conta ciò che si può contare, misura ciò che è misurabile e rendi misurabile ciò che non lo è”. Sì. Si tratta di misurare ciò che non è misurabile.

 

Se l’impresa (il liberalismo) è la punta avanzata di questa riflessione, la politica è quella arretrata. Meglio se fosse il contrario, perché la politica parla di una mentalità largamente diffusa, che qui fa da ostacolo. Ma, sono ottimista: vedo bicchieri pieni a metà; stanno nelle mani di molti leader politici europei (e non) che mi sembrano all’altezza del nostro futuro.

Francesco Bizzotto