giovedì 28 dicembre 2017

ESERCIZIO D'IMMAGINAZIONE POLITICA


FAREI COME TRUMP 

Trump può esserci utile. Gli Usa riducono le tasse alle imprese e l’Europa deve pensare a come rendere competitive le sue economie, attrarre investimenti ed esportare prodotti e servizi. Alesina e Giavazzi, al solito, propongono: ridurre le tasse e aumentare la produttività. E siccome le tasse come si fa?, resta la produttività. Questa volta però non picchiano sul lavoro. Dicono: in molti comparti è alta (si tocca con mano), mentre nei servizi alle imprese e dove c’è lo zampino della PA è bassa. Vero. Come aumentare la produttività dei servizi e della PA? Penso ai servizi assicurativi e alle puntuali indicazioni dell’Europa e dell’Istituto di vigilanza IVASS: Gestire i rischi, fare Investimenti “prospettici”, Prevenire i danni. Lo dice anche il presidente Mattarella per le catastrofi naturali. Ma sono cose che faticano a farsi strada. E Alesina e Giavazzi? Tacciono sui servizi e propongono di privatizzare le imprese pubbliche. Semplicistico.

Se avessi 40anni, anziché quasi 70, tornerei a fare Politica e proporrei di fare come Trump, ma un po’ diverso. Mirerei al libero mercato che non c’è, con forti pubbliche Istituzioni che fanno la loro parte, come lucidamente auspica Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della sera del 18.12 u.s. Un mercato vero, responsabile e regolato leggero.

Mi porrei tre obiettivi: 1° rendere esteso, normale, vivace e concorrenziale il fare impresa; 2° mettere la PA al servizio del Paese e farla lavorare in gruppo (aprendo così una chiara e sufficiente prospettiva di riduzione della corruzione e del debito pubblico); 3° non lasciare nessuno in difficoltà. Avrei dal 60 al 70% del consenso. Farei così:

1. IMPRESA. Punterei tutto sull’attivarsi delle persone e delle imprese, su chi può far da sé, crescere ed esportare, e disegnerei una prospettiva di veloce riduzione delle tasse alle PMI, ai commercianti e ai professionisti – il 98% del lavoro autonomo –, con ampia esenzione fiscale per le Start up. Lavoro nero ed evasione scenderebbero alla metà senza colpo ferire. N.B. Se si fa ricerca e dibattito aperto esce questo: il futuro è del lavoro responsabile e creativo, in imprese e reti trasparenti. È il nostro punto di forza. Rafforziamolo! E la grande impresa? Non so. Ha un ruolo decisivo. Farei qualcosa; ne parlerei, la sosterrei.

2. PA AL SERVIZIO del Paese. Mi dedicherei ai “rami bassi” (Sabino Cassese) della PA: incentiverei gli 8mila Comuni a unirsi o consorziarsi e utilizzare le loro intelligenze per infrastrutturare il Paese e mettersi a disposizione di chi fa impresa e di chi ha bisogno, di chi ce la fa e di chi è in difficoltà: semplificare, farsi carico e risolvere i problemi con Sportelli unici. O così, utili al Paese, o pochi soldi. Milano ha 134 Comuni (uno ogni tre km.!); ne bastano 30 che operano in gruppo, dai sindaci in giù. Si risparmia un miliardo l’anno. Del Nord Milano – Sesto, Cinisello, Bresso, Cormano, Cusano e Paderno – si fa un Municipio di 250mila abitanti. Così può pesare, fare Metropoli e avanzare soldi.

3. LAVORO. Chiamerei gli interessati a una radicale riforma del lavoro: da dipendente / indifferente a collaborativo / creativo, con piena libertà di licenziamento e forti Istituzioni locali di accompagnamento e sostegno del lavoratore: potenti Agenzie pubbliche del lavoro partecipate da imprese, professioni e sindacati, orientate ad anticipare i problemi e assicurate – qualcuno interessato a non avere “sinistri”; che non guadagni sui disoccupati –. Questa riforma la pagherebbe l’Europa, che non sa più come dirci di fare Politiche attive. Con le economie sul gretto sistema attuale di casse integrazione, assistenza a gogò e pseudo formazione ci pagheremmo il sostegno (servizi e reddito) che è sacrosanto diritto di chi è nel bisogno e, pur attivandosi, non ce la fa. Cos’altro, nel tempo degli ingegneri e dei robot?

In Lombardia è domanda latente. Esploriamola.
FRANCESCO BIZZOTTO

mercoledì 13 dicembre 2017

UNO STUDIO EULER HERMES


CRESCE IL PIL MA IL FUTURO NON È PER FORZA ROSEO

Molti indicatori segnalano aree di incertezza

La crescita del PIL e la ripresa economica sono un dato di fatto, anche se nascondono delle serie criticità. Per il momento ci sono aziende, secondo uno studio del Sole 24 ore, che hanno avuto una crescita del 18% ed alcune che invece sono decresciute dell’11%. Quelle che hanno il miglior trend di crescita sono quelle che esportano, le più digitalizzate, con minore e più qualificata occupazione. Quelle in continua crisi sono quelle che offrivano più posti di lavoro.

Secondo uno studio di Euler Hermes, una società specializzata nel recupero crediti: “La crescita del PIL globale, sta accelerando con un buono slancio, aumentando finalmente ad un ritmo più sostenuto rispetto agli ultimi due anni, tuttavia, dietro questo quadro positivo, si trova una marcata divergenza nelle fortune economiche da paese a paese”.

E ancora: “È stata poco brillante negli Stati Uniti, sostanzialmente forte in Cina grazie a stimoli precedenti e stabile nell’Eurozona, soprattutto grazie alla crescita delle esportazioni. Anche la fiducia delle imprese è migliorata notevolmente, dato che sentono la spinta di una domanda più dinamica e una risalita dei prezzi, dopo diversi anni di sviluppo lento”.

È un dato da tenere sempre come riferimento, comunque la partita della crescita globale e nazionale è come una partita di calcetto. In campo per lo sviluppo ci sono: l’inflazione che crea una spinta alla fiducia e agli investimenti, l’aumento dei consumi, con le vendite al dettaglio in continuo lievitare, anche se lieve.

Questo migliora la fiducia delle imprese, dato che le aziende sentono la spinta di una domanda più dinamica e una risalita dei prezzi, dopo anni di progresso pigro. La ripresa degli investimenti e l’accelerazione delle esportazioni, che per quanto riguarda le aziende italiane è altamente positivo. Con questo continuo incremento ci sarà un progressivo miglioramento del mercato del lavoro, favorendo ulteriormente la spesa privata, vera leva per l’uscita dalla crisi. Le politiche di supporto, poiché la liquidità globale ha raggiunto livelli record, con oltre 19 trilioni di dollari e la politica monetaria dovrebbero rimanere ampiamente accomodanti.

Contro la crescita giocano: la reflazione, cioè la moderata nuova inflazione successiva alla deflazione, che se è positiva per il fatturato delle aziende, c’è il rischio che i margini e il potere di acquisto reagiscano negativamente; il fatto che il ciclo degli investimenti è in gran parte finanziato dal debito sia pubblico sia privato; i tassi di interesse più elevati potrebbero compromettere gli investimenti; il protezionismo, che non sta diminuendo e che trova continui sostenitori e le difficoltà a reagire ad una nuova crisi. Infatti i responsabili delle politiche sono preoccupati dai rischi derivanti dal non avere spazio di manovra sufficientemente recuperato prima della prossima crisi.

Poi c’è un giocatore che per il momento non sappiamo dove voglia posizionarsi: il rischio politico. In Europa dopo Brexit ed elezioni francesi non sembrano esserci grossi azzardi. Le elezioni italiane, nonostante tutto, non dovrebbero influenzare lo sviluppo, tant’è vero che il dibattito politico in Italia è caratterizzato da problemi che con l’economia centrano poco. Dall’immigrazione al testamento biologico, di sviluppo parlano seriamente in pochi, forse nessuno ha un’idea precisa, o probabilmente le decisioni vengono prese in altri ambiti e strutture, alle quali il nostro paese non sempre è invitato.

La democrazia parlamentare in Italia è sempre più in crisi, o meglio, è come se fosse svuotata. Non riesce a rappresentare la società nel suo complesso e appare assorta in dibattiti distanti dai reali bisogni dei cittadini. Ormai le leggi vengono interpretate attraverso regolamenti emanati dalle Authority, o sono il recepimento di direttive comunitarie.

Una situazione di questo tipo, insieme ad una ripresa che crea fratture e squilibri nella società, la famosa forbice tra ricchi e poveri che si allarga sempre di più, possono creare le premesse per un futuro poco roseo.

Massimo Cingolani

mercoledì 6 dicembre 2017

IL DIFFICILE INCONTRO TRA DOMANDA E OFFERTA DI LAVORO


OCCUPAZIONE: COMPRENDO, PARTECIPO, CONCORRO

“Favorire la formazione mirata e il costante aggiornamento per incontrare la domanda delle imprese e cogliere i margini di occupabilità difficile (un consistente 20%)”. Lo dice Maurizio Del Conte, giovane presidente di ANPAL, l’Agenzia Nazionale per le Politiche Attive del Lavoro. E qual è la domanda? Le Camere di commercio sono impegnate a rilevarla, con la regia di ANPAL. In Lombardia, Brescia ha già una bella immagine della sua dinamica industria. Milano è due passi indietro, con le sue grandi imprese e Istituzioni, i servizi avanzati e una ricca industria di precisione nel Contado. Qui la domanda di lavoro è complessa e poco indagata. Una nebbia anni ’70.

La questione non riguarda solo l’occupazione. Serve capire come si orientano le imprese e quali competenze gli occorrono per mettere in campo le capacità e conoscenze giuste. Per orientare le famiglie, gli Istituti professionali, le Università e i formatori. Una relazione da strutturare in modo reciproco. Altrimenti come si fa a fare futuro? Nella separatezza, vince lo spreco autoreferenziale, perfetto nella buona fede, e il Paese perde pezzi di pregio (i giovani). Comprendere la domanda di lavoro significa indirizzare le Istituzioni formative e chieder loro il conto.

E non solo. Significa alimentare nei giovani, troppe volte isolati, confusi e disperati (apriamo gli occhi: 500 suicidi all’anno sono un incubo!), la mentalità del prender parte responsabile, del concorrere a creare le società di riferimento. È ciò di cui c’è bisogno per affermare il valore europeo della libertà personale che, appunto, con Giorgio Gaber, “non è star sopra un albero” (avere orario e stipendio personalizzati), “è partecipazione” (capire e dire dove va l’azienda e il mondo): pre-condizione di chance e di uguaglianza; presupposto di mobilità sociale, di differenze meritate, di giustizia. Indagare la domanda di lavoro (a Milano!) ha questo intenso riverbero sui giovani: mostra che la società vuole essere giusta perché è aperta, rischiarata, e dunque rischiabile. E Milano dà il tono al Paese.

Un esempio? La Germania, una società organizzata e ambiziosa. Non a caso ha due oliati livelli di democrazia economica: la partecipazione dei sindacati alla gestione delle grandi imprese e l’Agenzia pubblica del lavoro Ba, che accoglie e accompagna nella ricerca chi è senza lavoro e chi lo vuole cambiare per crescere. La Ba ha 100mila operatori; il nostro scalcagnato sistema di Centri per l’impiego 8mila, e l’Agenzia metropolitana milanese AFOL (costata 2 miliardi) è in frigorifero.

Allora, per fare oggi mercato del lavoro, serve l’Istituzione per le Politiche attive centrale (nazionale ed europea: bene ANPAL, va posto il problema a Bruxelles!) e locale: un attore pubblico-privato, largamente partecipato, che anticipi le crisi produttive e di relazione, e favorisca il dialogo, un vero match, tra domanda e offerta. La scelta del collaboratore (e dell’imprenditore) deve avvenire per confronto diretto e plurale, perché i fattori che contribuiscono alle decisioni sono a “razionalità limitata”, direbbero i Nobel per l’economia Daniel Kahneman (2002) e Richard Thaler (2017). Si tratta di competenze e di soldi, e di affinità, sintonie, simpatie. Premesse di armonie.

Questo hanno fatto i Paesi cresciuti più di noi in Pil e occupazione. Questo dice l’Europa (Marianne Thyssen, commissaria per l’occupazione: le Politiche attive del lavoro in Italia sono “incomplete e carenti”). E solo questa scelta forte di accompagnamento istituzionale giustifica un certo tasso di precariato (l’economia dei lavoretti, il lavoro a chiamata che cresce a doppia cifra) e farà rientrare il diffuso rancore. Non basta descrivere ciò che è evidente, come fa troppa stampa (ad esempio Luca Ricolfi sul Messaggero del 25 u.s.).

Senza l’articolata Istituzione per le Politiche attive, i rapporti di lavoro, promossi da relazioni casuali o familiste o sbilanciate, restano scentrati. Da qui i faticosi aggiustamenti successivi e l’insoddisfazione delle parti (il 58% dei lavoratori, mentre l’imprenditore vuole avere mani libere per licenziare se la collaborazione non gira). Non son proprio condizioni per quel che serve: la dedizione, la cura, la creatività, l’innovazione.

Al cuore della questione c’è un tema mal digerito nel bel Paese: il Mercato, luogo regolato di libera concorrenza tutt’altro che conservatrice. Dice Georg Simmel in Sociologia, 1908 (Edizioni di Comunità, Milano 1989, p. 246):

“Della concorrenza si sottolineano di solito gli aspetti velenosi, dispersivi (…). Accanto (… vi) sta però pur sempre un enorme effetto associativo: la concorrenza (…) moderna, che si contraddistingue come lotta di tutti contro tutti, è però al tempo stesso lotta di tutti per tutti.”

I giovani amano il libero concorrere. Sono assai più refrattari i “vecchi” adulti, la P.A. e le grandi imprese: tre colossi che praticano la statica, il trantràn, le furberie e la gestione (il taglio dei costi, fermo il resto).

Come affermare la concorrenza? Servono un bel dibattito, dati chiari e tre passi: 1° evidenziare l’indirizzo europeo e del Paese; 2° comprendere a fondo l’orientarsi e la domanda di lavoro delle imprese; 3° mirare in modo convergente all’Istituzione che favorisca il rispetto e il match tra detta domanda e l’offerta.

Senza scelte politiche chiare e avanzate c’incartiamo, senza libera impresa non c’è né lavoro né futuro, e senza libero lavoro perdiamo.

Francesco Bizzotto

NUOVE NORME O SEMPRE IN SALITA?


VOLONTARIATO E BUROCRAZIA. ALL’ITALIANA

Periferie e volontariato vengono spesso rappresentate per quello che non sono. Delle periferie non si coglie il disagio e l’estraneità verso le istituzioni, salvo meravigliarsi quando non vanno a votare o peggio scelgono ”male”. Il volontariato invece non è solo quello rappresentato dalle grandi associazioni, che dedicano molto tempo alla gestione dell’immagine e a ritagliarsi un ruolo nella politica. Ci sono associazioni con numeri esigui di volontari, ma impegnati a risolvere problemi e situazioni particolari della società.

Ad esempio c’è n’è una formata da appassionati di antichi strumenti scientifici a Brera, che restaura gratuitamente orologi storici. A Sondrio ci sono gruppi di appassionati che ripristinano treni veri e che li fanno funzionare. Spesso questo tipo di aggregazioni non sono percepite come “volontariato”, come se lo scopo debba sempre essere la cura di una persona malata e non la cura della città o dell’ambiente. Per molte di queste strutture l’unico rapporto con le istituzioni è solo di tipo burocratico. È vissuto come un obbligo, ad esempio, il fatto che legge 266 imponga alle associazioni di volontariato di stipulare un contratto di assicurazione di responsabilità civile, infortuni e malattia. L’obbligo sussiste anche qualora il volontario possa incorrere in un incidente, o possa contrarre una malattia professionale.

Con poche risorse questa voce può diventare un onere costoso, anche perché può capitare il caso della associazione di musicisti che vuole organizzare dei concerti di musica classica nei cortili delle case popolari, alla quale viene richiesta una polizza come se si trattasse di un concerto rock con cavi elettrici da 800 Volt. La legge sul terzo settore, dovrebbe finalmente regolamentare la sistemazione di un settore poco normato e spesso deregolato.

Nella giungla del volontariato non mancano poi esperienze di confine, dove vengono proposte filosofie positive: il superamento dell’egoismo, l’educazione ad un etica più avanzata, con citazioni di filosofi e papi; ma poi si passa alla richiesta di un contributo in contanti o con paypal, per ricevere una sorta di “kit del volontario” e di bilanci trasparenti non si vede nemmeno l’ombra. Spesso queste pratiche usano in maniera disinvolta i social, in una società bisognosa di solidarietà.

Un ruolo essenziale nella nuova regolazione sarà focalizzato sul Registro Unico del Terzo Settore: uno strumento che sarà avviato, gestito e aggiornato dalle Regioni ma che utilizzerà un’unica piattaforma nazionale.

L’obiettivo è il superamento della frammentazione e dell’opacità dei troppi registri oggi esistenti: l’accesso al Fondo progetti, al cinque per mille, agli incentivi fiscali sarà possibile solo attraverso l’iscrizione al Registro. Con il decreto sull’impresa sociale, l’Italia si dota di una normativa particolarmente innovativa, ampliamento dei campi di attività come il commercio equo, l’alloggio sociale, il nuovo credito, l’agricoltura sociale. La possibile, seppur parziale, distribuzione degli utili e soprattutto incentivi all’investimento di capitale per le nuove imprese sociali. Per la prima volta diventano esplicite in una legge alcune indicazioni alle pubbliche amministrazioni: come incentivare la cultura del volontariato, o cedere senza oneri alle associazioni beni mobili o immobili per manifestazioni, o in comodato gratuito come sedi, o a canone agevolato per la riqualificazione.

Il Governo con questo provvedimento intende investire sull’innovazione sociale, ma sarà fondamentale muoversi verso questo mondo in maniera non strumentale, non enfatizzando solo l’impegno verso le persone con disagio, ma valorizzando anche chi crea capitale sociale portando la musica classica in un cortile di periferia o restaurando un autobus storico che circolava a Milano negli anni del boom in una bella livrea biverde. Riguarda un mondo costituito da 300mila associazioni, 1 milione di lavoratori e oltre 5 milioni di volontari. Quelle del terzo settore sono organizzazioni essenziali per la coesione sociale.

Il sociologo americano Lyda Judson Hanifan, fu il primo ad introdurre in un suo scritto del 1916, e poi in un successivo del 1920, una definizione di “capitale sociale” nell’ambito dei rapporti sociali. Scriveva che “il capitale sociale si riferisce a quei beni intangibili che hanno valore più di ogni altro nella vita quotidiana delle persone: precisamente, la buona volontà, l’appartenenza ad organizzazioni, la solidarietà e i rapporti sociali tra individui e famiglie che compongono un’unità sociale”. E anche segnalava “quegli elementi tangibili che contano più di ogni altra cosa nella vita quotidiana delle persone: la buona volontà, l’amicizia, la partecipazione e i rapporti sociali tra coloro che costituiscono un gruppo sociale. Se una persona entra in contatto con i suoi vicini, e questi a propria volta con altri vicini, si determina un’accumulazione di capitale sociale”.

Il volontariato diffuso necessita di strutture leggere e temporanee, ad esempio c’è da pulire una via, un’area cani o di piantumare un’aiuola, per questo si può costruire un’unione temporanea di cittadini. Si potrebbe prevedere una struttura alla quale si possa aderire, con minimi passaggi burocratici, per normare eventuali responsabilità (se ad esempio ad un volontario dovesse cadere una scopa su di un’auto posteggiata). Nella nuova legge, ad una prima lettura, non sembrerebbe codificata una simile associazione; le amministrazioni locali, però, possono favorire e coordinare tali attività.

Massimo Cingolani